domenica 27 maggio 2012

L.A. Noire

"Put your weapon down, now!"
Come detto più volte, questa generazione videoludica non ha granchè entusiasmato.
Console costruite con componentistica scandente, prezzi esorbitanti, videogiochi prodotti con lo stampino, stampa specializzata ridotta a reclame commerciale.

Fortuna che, nonostante tutto, c'è chi ha ancora voglia di sperimentare, di rischiare, di offrire qualcosa di diverso rispetto alla concorrenza. A volte si fa bingo, a volte si fallisce, a volte tutti e due i casi. Quest'ultimo è il caso di L.A. Noire, uno dei giochi più chiacchierati e attesi degli ultimi anni e arrivato nei negozi nel maggio del 2011. Il successo di vendite c'è stato, ma ciò non è bastato a salvare lo studio di sviluppo dal fallimento, provocato anche dai contenziosi aperti dai dipendenti, costretti a turni di lavoro massacranti. Al di là di ciò, L.A. Noire, pad alla mano, si mostra come una delle esperienze più belle e coinvolgenti mai nate in ambito videoludico, ricca di atmosfera e fascino, seppur con qualche difetto in grado di non farlo digerire a tutto il pubblico.

Nel gioco l'utente impersona Cole Phelps, reduce di guerra e poliziotto losangelino, nel corso della sua carriera, partendo dai distretti e dai casi meno prestigiosi fino alla narcotici, alla omicidi e alla incendi dolosi. Ovviamente i casi non saranno tutti slegati tra essi: sullo sfondo si agitano alcuni dei gangster più famosi dell'epoca e i loro traffici, oltre che un caso mai risolto inerente al furto di grosse quantità di morfina dalle scorte dell'esercito.

Oltre ai casi propriamente detti (alcuni veramente capolavorici e citazionistici, come il caso Nicholson Electroplanting e La Città Nuda), Cole potrà destreggiarsi in altre attività, come la possibilità di sedare crimini girovagando per la mappa, la raccolta di distintivi e di pellicole di celluloide.

Purtroppo - e qui sta l'unico vero neo del prodotto del Team Bondi- i crimini della strada sono tutti molto simili tra loro (in pratica, si insegue o si insegue e si spara), e anche i casi di polizia seguono sempre lo stesso schema consistente nel raccogliere prove, analizzare la scena del crimine, interrogare i sospettati. Onestamente il sottoscritto, da amante del noir, non si è mai annoiato nel fare ciò (e il gioco dura tra le venti e le venticinque ore) ma molti hanno notato monotonia in queste meccaniche.

La cosa su cui tutti concordano, però, è la tecnologia di rilevazione facciale usata per la prima volta nel gioco: Mai prima di L.A.Noire si avevano avuti "attori" digitali così variegati nelle espressioni facciali e così determinanti ai fini del gameplay (per inciso, i tic e le espressioni del volto sono importantissimi ai fini degli interrogatori). Buona anche la realizzazione tecnica generale, sebbene molti si lamentino della "vuotezza" della Los Angeles anni '40 del gioco (dimenticando però che il free roaming non è il fulcro dell'esperienza, ma tant'è).

Splendida la colonna sonora, ottima la sceneggiatura (c'è solo un buco narrativo, lacuna inspiegabile, dato che a colmarla sarebbe bastato un filmato di 5 minuti), grande recitazione e tante, tantissime citazioni, in primis alla realtà dei tempi, oltre che a romanzi di autori come James Ellroy e John Fante. Tanti e ricercati anche gli omaggi a capolavori del cinema come Chinatown o Intolerance (e anche un simpatico easter egg "dedicato" a Brokeback Mountain).
Cosa chiedere di più?

Io non chiedevo nulla di più, tanto che L.A.Noire è uno dei giochi da preferiti non solo di questa generazione, ma di sempre. Altri invece ne rilevano una monotonia di fondo e una serie di difetti di gameplay. Il mio consiglio è comunque quello di fregarvene e giocarci. Vivrete una delle esperienze più belle che un videogioco possa offrirvi.

[9,0]

Ho Visto Del Piero

Ho visto Del Piero.
L'ho visto volare leggero come un angelo, quando aveva la faccia da putto.
L'ho visto inventare un tiro che è diventato solo il suo e lanciarsi tra i grandi ancora ragazzo.
L'ho visto segnare con la sua squadra soprattutto nelle partite che contavano, negli scontri diretti, nelle finali in giro per il mondo.
L'ho visto arrabbiarsi e digrignare i denti se c'era un principio da difendere e chinare la testa se il suo bene non era quello dei compagni.
L'ho visto lottare contro gli egoismi, anche contro i suoi, perché crescendo ha capito cosa voglia dire il gruppo.
L'ho visto parlare di valori e comportarsi di conseguenza.
L'ho visto inciampare e poi cadere.
L'ho seguito mentre si rialzava a fatica.
L'ho visto lottare contro allenatori e mal di pancia nervosi.
L'ho visto amare la maglia azzurra e non riuscire a farlo capire. Poi l'ho visto portarci a Berlino.
L'ho visto capire che le cose cambiano, modificare il gioco, segnare 11 gol di seguito su rigore se il rigore poteva essere il massimo da dare alla squadra in quel momento.
L'ho visto adattarsi dove non voleva, sacrificarsi facendolo ricordare.
L'ho visto umile e l'ho visto presuntuoso.
L'ho visto soffrire quando ha sbagliato.
L'ho visto uscire in smoking bianco, immacolato, da una discarica.
Non l'ho visto mollare, mai.
Non ho mai letto di lui sui giornali degli scandali.
Ieri sera l'ho guardato mentre si sedeva in panchina, con il broncio di chi vuole giocare.
L'ho visto applaudire i compagni per i gol che segnavano, esultare per la squadra.
L'ho visto entrare in campo senza riscaldamento, lui che non è più un ragazzino. L'ho visto strillare al ragazzo che parlava troppo, perché ci vuole rispetto.
L'ho visto segnare una punizione da artista e un rigore da ragioniere.

Sono contento di aver visto Alex Del Piero fare tutte queste cose.
Alex Del Piero è un bell'esempio per i miei figli.

(Fabio Caressa)
705 presenze, 290 gol, 19 trofei in 19 anni.

Precious

Produce e dirige Lee Daniels
Dal Sundance Film Festival, oltre a tanta roba hipster e decisamente trascurabile, spesso escono film di una forza tale da imporsi anche agli occhi del grande pubblico.

Uno di questi è sicuramente Precious, dramma del 2009 che, dopo aver stupito Cannes e Park City, ha conquistato Due Premi Oscar e un Golden Globe. Non male per un film indie. Non male nemmeno per un film così forte ed esplicito -tra l'altro ispirato ad una storia vera-, che tratta temi scomodi e inusuali a determinate platee come la violenza famigliare, lo stupro, la sieropositività, l'emarginazione sociale.

Ottimo il cast, che vede grande protagonista Mo'nique (una comica) che ha saputo vincere un Oscar e un Golden Globe grazie a una recitazione convincente e intensa. Da sottolineare anche la prova di Gabourney Sidibe, alla prima sul grande schermo e che si è portata a casa una nomination come migliore attrice protagonista. Da citare, per i feticisti, i camei di Lenny Kravitz e Mariah Carey, molto distanti dall'immagine pop e sofisticata che solitamente li adorna.

Buonissima la colonna sonora, un po' meno convincente la regia, a mio avviso troppo bizantina -nel senso che passa da sequenze da documentario ad altre molto più tradizionali e didascaliche, con risultati non sempre convincenti- e il montaggio, che però svolge bene la sua funzione (chi ha visto il film capisce a cosa mi riferisco).

Sembra incredibile credere che vicende come quelle narrate da Precious possano avvenire nella vita reale. Eppure è vero. Cosa ancora più commovente è vedere come la vita di una ragazzina di sedici anni possa essere rovinata in modo irreparabile da coloro i quali dovrebbero proteggerla ed educarla.

[8,0]



sabato 12 maggio 2012

Dark Shadows

Un sequel? No, Grazie!
C'era un tempo in cui  Tim Burton scriveva e dirigeva film come Big Fish - Le Storie di Una Vita Incredibile, La Sposa Cadavere, Il Mistero di Sleepy Hollow o Ed Wood, film di grande qualità, talvolta eccelsa.
Poi è arrivato il pessimo Alice in Wonderland, e da lì la carriera del buon Tim ha iniziato a declinare inesorabilmente: prima il video (bruttissimo) di Bones, canzone (bellissima) dei The Killers, poi Sweeney Todd, che mi è piaciuto così tanto che non ho nemmeno voluto recensirlo ed infine questo Dark Shadows.

Adattamento di un serial televisivo, Dark Shadows è incentrato sulla figura di Barnaba Collins, uomo tramutato in vampiro da una strega di lui innamorata, il quale, dopo essere stato imprigionato per due secoli, viene liberato nel 1972. La famiglia è in declino, la vecchia magione (denominata Collinwood) messa così male che potrebbe godere dell'esenzione IMU e con la vecchia rivale divenuta l'indiscussa padrona di Collinsport, la città fondata dai suoi avi. Davanti a tale situazione il pallido Barnaba si attiverà per riportare i Collins, il villaggio e l'azienda di famiglia al passato splendore. Nel mentre, se la dovrà vedere con la strega Angelique e Victoria, la giovane domestica tanto simile al suo perduto amore.

Premesse buone, bisogna riconoscere. Peccato che il film faccia veramente schifo: a conti fatti, Dark Shadows si presenta come un'accozzaglia di quanto oggi sia pop tra i teenager: vampiri, streghe e licantropi. Con la differenza che qui i vampiri non brillano alla luce del sole.
Bella l'idea di ambientare tutto negli anni '70 (e qui c'è da sottolineare la presenza di una buona colonna sonora, con canzoni di Alice Cooper, Iggy Pop e Barry White), ma gli spunti offerti si limitano solo a un paio di gag con Hippies fumati e dicono "oooh, che figo!" a ogni parola di Barnaba.

Proprio questo esempio fa capire tanto del film: le idee non mancano, ma sono sviluppate in modo episodico, marginale e prevedibile. A me è parso che tutte le cose che accadono durante le due ore scarse di proiezione siano solo un riempitivo per giungere allo "scontro finale". Un riempitivo peraltro scialbo, incoerente e a tratti noioso (non bastano un paio di battute e qualche situazione piccante per migliorare la situazione) e senza una reale trama a sorreggere il susseguirsi degli eventi.

A ciò si aggiunga poi la retorica burtoniana, ormai trita e ritrita e stancamente riproposta in ogni film. Manca la verve che aveva caratterizzato la prima parte della carriera del regista, mancano vere innovazioni. Stessi toni cupi, stessa fotografia, stessa atmosfera che si perpetua da vent'anni.
Se poi ci aggiungiamo che il regista di Burbank si mette  a citare l'espressionismo tedesco anni '30 -in un film con i vampiri protagonisti, che novità!- e ad autocitarsi (fan service dicono i supporter, modo per dimostrare quanto il regista sia giunto alla frutta, dico io)  con richiami a Mars Attacks!, Edward Mani di forbice e La Sposa Cadavere, capiamo quanto il buon Tim si sia in parte adagiato sugli allori, vivendo della luce riflessa del suo (encomiabile) passato artistico.

Sul versante del cast, oltre ai soliti Johnny Depp ed Helena Bonham Carter (e qui un mobbasta degno del miglior Maccio Capatonda ci starebbe benissimo) che peraltro non recitano nemmeno ai loro livelli, c'è da segnalare la presenza di una convincente Michelle Pfeiffer e di una Eva Green bellissima e in forma smagliante, tanto che potrebbe essere indicata come l'unica nota lieta della produzione.

Insomma, Dark Shadows è l'ennesima delusione di Tim Burton. Meglio di Alice in Wonderland (anche perchè fare peggio di quel film era quasi impossibile), ma da un (ex?) maestro come Burton è lecito aspettarsi di più e di meglio

[4,5]