sabato 25 febbraio 2012

TrashAwards 2012

In attesa degli AlekAwards di quest'anno, una nuova premiazione atta a premiare tutte le cose più strane, rozze, balzane che circolano su internet.
Regole: non ci saranno nominations, categorie fisse o chissà che. Semplicemente, una volta l'anno assegnerò i premi a mio puro piacimento.

PREMIO TRASH ALLA CARRIERA: Iva Zanicchi
La Zanicchi la conosciamo tutti: vincitrice a Sanremo, presentatrice di indubbia fama, parlamentare di dubbie capacità. Eccola qui in un video d'epoca in cui...vabbè è chiaro. C'è chi dice che in quel frangente fosse sotto ipnosi, ma chi è disposto a vagliare la veridicità di tali affermazioni?


PREMIO CANTANTE E CANZONE TRASH: Donato Mitola con "Succhio Succhio, Lecco Lecco"
La concorrenza in Italia è fortissima per questo premio, ma ho preferito premiare un decano del trash che, oltre a questa canzone, ci ha lasciato pezzi memorabili come "Licantropo" o "Il Serpente". Che possa vincere anche nei prossimi anni?


PREMIO SPECIALE ESIBIZIONE ARTISTICA: Jessi Malò alla Sagra Paesana
La sua danza sulle note di "Gloria" di Umberto Tozzi ha fatto il giro del mondo e ci starebbe un premio anche per quella, ma anche questo live ha il suo perchè. Mi sento solo di scrivere Grazie di Tutto, Eroe.


PREMIO DELLA GIURIA "MAMMA MIA SE SEI MESSO MALE": La Numa Girl
Dico io, ok voler avere un quarto d'ora di celebrità, ma questa è pazza da legare.
Mettete a letto i bambini!


PREMIO SPECIALE "UN MITO INCANCELLABILE": Steklovata
Forse ho già dedicato loro un post anni fa, ma chi se ne frega, meriterebbero un post al mese. La cosa migliore che l'ex blocco sovietico ha dato al mondo dopo quintali di gnocca accessibile a tutti coloro i quali possano permettersi un biglietto RyanAir. E dire che di rivali per il premio ne avrebbero...

Jay & Silent Bob...Fermate Hollywood!


Parlo spesso di cinema sul mio blog, ma questo film mi ha segnato, nel bene e nel male. Tanto che al momento lo considero uno dei migliori film demenziali che abbia mai visto.

Il Film (che, vista la lunghezza del titolo, abbrevierò in J&SB) può essere considerato uno spin-off di Clerks, film indipendente di metà anni '90 -che magari un giorno mi degnerò di recensire, non si sa mai-, dato che i protagonisti sono gli stessi (e in effetti lo è anche l'autore e il regista, Kevin Smith). I protagonisti di cui sopra sono appunto Jay e Silent Bob, due spacciatori del New Jersey che, dopo essere diventati star di un fumetto chiamato Bluntman & Chronic e avere scoperto che la Miramax a loro insaputa sta girando un film, decidono di prendere la strada in direzione di Hollywood, al fine di bloccare le riprese a causa dei continui insulti che dalla rete si riversano sul progetto. Il viaggio sarà un pretesto per collegare tra loro gag ad elevato tasso di demenza e scurrilità, che non possono che piacere ad un amante del trash come il sottoscritto.

Non che ci sia molto da dire su un film come J&SB, ma è bello far notare che qualità e quantità di battute sono tali da non scontentare nessuno, si va da situazioni surreali ad altre molto più volgari ma non per questo meno divertenti. Oltretutto il film è impreziosito da tantissimi camei, anche con attori e registi che non ci si aspetterebbe di vedere in un film del genere, come Wes Craven, Gus Van Sant (strano che appaia in un film così spiccatamente omofobo) o George Carlin, affiancati da figure molto meno pretenziose come Ben Affleck, Matt Damon (la scena del remake di Will Hunting è da applausi), Will Ferrell, Chris Rock o James Van Der Beek.

Io lo consiglio caldamente, un film stupido dentro e fuori, ideale per passare un paio d'ore in allegria e guadagnarsi la stima degli amici a cui lo farete conoscere.

[8,0]

mercoledì 22 febbraio 2012

Il Cigno Nero


Dopo The Wrestler, Darren Aronofsky si è guadagnato la mia stima incondizionata.
Stima incondizionata che viene da me confermata dopo la visione de Il Cigno Nero.

A mio avviso questo film è un po' il "lato oscuro" proprio di The Wrester: là Randy The Ram cercava di rimettere in sesto un'esistenza ormai squallida e senza sostegno affettivo gettando i panni del lottatore-showman per rivelarsi come uomo debole e sofferente, qui invece Nina, ballerina classica introversa e mite, vede tutta la sua pacifica vita dissolversi sotto il peso dello stress e della volontà di raggiungere la perfezione nell'intepretazione di un ruolo che non le appartiene, ma che finirà per fagocitarla.

Il tema portante del film è il doppio, chiaramente espresso dal Cigno Bianco e dal Cigno Nero protagonisti de Il Lago Dei Cigni di Piotr Tchaikovsky. E si può dire che la protagonista fa quasi volontariamente morire la sua anima di Cigno Bianco (puro, candido, casto e gentile) per divenire il cigno Nero (aggressivo, rabbioso e violento). Processo che, prima ancora che scenico e fisico, è psicologico e caratteriale, con la protagonista che inizia col rigettare le cure a tratti ipocrite della madre, passando poi al lasciarsi andare ai piaceri della carne per poi finire con l'autolesionismo e i deliri. In tutto ciò l'eros ha un ruolo importantissimo, se è vero come è vero che il crollo interiore della ragazza ha inizio quando il direttore artistico le chiede di masturbarsi, al fine di assumere maggior disinvoltura, e finisce con la scena del rapporto orale tra Lei e Lily, che rappresenta tutto ciò che, in termini di erotismo e fascino, Nina non riesce ad essere.

Al di là delle elucubrazioni che si possono costruire su questo thriller psicologico, c'è da sottolineare anche quanto di buono sia stato fatto in sede di recitazione da parte del cast (interpretazione pressochè perfetta della Portman, ma ottime anche le prove di Vincent Cassell e Mila Kunis) e non si può non elogiare il mix tra senso di "sofisticato" proprio del mondo della danza che permea l'atmosfera e momenti a tratti inquietanti, carichi di tensione e di forte carica ansiogena.

A mio avviso Il Cigno Nero non è un film per tutti e non è un film che si può apprezzare pienamente dopo una sola visione. E' comunque considerabile un film ottimo sia dal punto di vista dei contenuti che della resa a schermo, tuttavia leggermente inferiore a The Wrestler.

[8,5]

sabato 18 febbraio 2012

L.A. Confidential


Bud White, Jack Vincennes ed Ed Exley sono uomini molto differenti tra loro, accomunati dal fatto di far tutti parte della polizia di Los Angeles. Accomuntati anche da fatto di avere un passato non proprio limpido alle spalle e di avere dei modus operandi nello svolgimento delle funzioni di polizia non proprio tipiche di uno Stato garantista.
I loro destini si incroceranno per risolvere una serie di casi a prima vista distanti tra loro, ma che con il passar delle indagini e degli anni appariranno come parte di una grande macchinazione volta a proteggere l'onore e la rispettabilità di persone che, nella L.A. di fine anni '40, dovrebbero apparire come intoccabili.

L.A. Confidential (romanzo da cui è stato tratto anche l'omonimo film con Kim Basinger, Russell Crowe e Kevin Spacey) è un'opera forte, rude e schietta, diretta come un pugno nello stomaco. Gli ingredienti principali di quello che può essere visto come uno spaccato della società upper-class anni '40 non sono l'eroismo o l'amore per il rispetto della legge, ma tutte quelle malsane brutture che una società sciovinista e bigotta come quella dell'epoca non poteva nemmeno sentir nominare, come la pornografia, la prevaricazione, la corruzione, l'abuso di droga, la prostituzione.

Romanzo oltremodo ammaliante e capace di far perdere il sonno (letteralmente) al fruitore, trova i suoi limiti (forse) nell'essere fin troppo classico. Come altre opere dello Scrittore losangelino (La Dalia Nera è il primo esempio che mi sovviene), non c'è nulla di veramente nuovo o innovativo: ci si limita a fare (benissimo) il compitino.
Ma, sebbene non ci sia nulla di più buono della minestra riscaldata del giorno prima, anche quella alla lunga risulta stancante.

[8,0]

sabato 4 febbraio 2012

Midnight In Paris


Commedia piacevolissima, sicuramente uno dei migliori film di Woody Allen, che fa della capitale transalpina il cuore pulsante di una storia surreale e di gusto incentrata sulle dinamiche di coppia tra Gilles, scrittore nostalgico e amante della Ville Lumière, e Ines, sua promessa sposa gretta e materialista.

Da sempre affascinato dalla città sulle rive della Senna, il protagonista scopre che allo scoccare della mezzanotte il mondo di oggi si tange col periodo d'oro di Parigi, quegli anni '20 del secolo scorso in cui la città francese era ritrovo di tantissimi degli artisti e degli intellettuali che hanno segnato il Secolo Breve, da Modigliani a Picasso, da Hemingway a Scott Fitzgerald. E proprio questo paradosso temporale permette a Gilles, impersonato da un Owen Wilson insolitamente ispirato e lontano dai ruoli con cui si è guadagnato fama tra il pubblico mondiale, di conoscere ed avere a che fare con alcuni dei suoi idoli e di intrecciare una storia con una donna degli anni '20, Adriana, interpretata da una meravigliosa Marion Cotillard.

Cone in tutte le buone commedie di Woody Allen, a farla da padrone è l'intelligenza e l'arguzia delle battute, capaci di far ridere senza mai essere banali o volgari. Bellissimi i siparietti, ad esempio, tra il protagonista e i patriottici genitori della futura moglie, o i logorroici monologhi di Paul, intellettuale inglese onnisaccente che ha le sembianze di Martin Sheen, nuova star del cinema anglosassone, così come le versioni, sicuramente romanzate e sorprendenti, di persone come Salvador Dalì (con un Adrien Brody in stato di grazia a rendere su schermo le assurde visioni del baffuto pittore catalano) o dello stesso Ernst Hemingway.

Devo dire che mi ero avvicinato con sospetto a questo film, soprattutto perchè temevo che il film si rivelasse una sorta di reclame per Parigi. E così in parte è stato, con una lunga sequenza iniziale che serve solo a mostrare le tante bellezze della Città. Subito dopo però esce la storia, che come detto è ben scritta (nel senso che pur non trattando un tema originalissimo, riesce comunque a non sapere di "già visto"), coinvolgente e divertente.

Insomma, missione compiuta per il regista newyorkese, atteso al bis nell'accoppiata "Film/Città" con Be Bop Decameron, girato a Roma, forse in ossequio al vecchio adagio secondo cui "Solo Roma è all'altezza di Parigi, solo Parigi è all'altezza di Roma".

[9,0]

Q


Con incredibile ritardo (ho finito di leggere questo libro più di un anno fa) provvedo a mettere per iscritto in italiano comprensibile l'opinione che preparai tempo addietro per questo libro,che io reputo uno tra i migliori romanzi italiani degli ultimi dieci anni.

Opera di un pool di autori che amavano farsi chiamare Luther Blissett (pseudonimo preso dal noto attaccante inglese del Milan anni '70, soprannominato, per le sue scarse doti realizzative, Luther Miss It) ora noti come Wu Ming, Q è stato spesso citato come romanzo apripista della cosiddetta New Italian Epic, una corrente letteraria e cinematografica, invero ancora in vita, la quale, partendo da fatti di cronaca o da fatti storici tipicamente italiani, si tuffava in una critica e in una rivisitazione di quei fatti alla luce della situazione italiana di oggi. Esempi di questa fiumana di opere (in alcuni casi veri e propri capolavori) possono essere Romanzo Criminale di De Cataldo, Gomorra di Roberto Saviano e, in ambito cinematografico, Il Divo di Paolo sorrentino.

Sebbene Q abbia dato il "là" alla corrente, di New Italian Epic ha tanto e poco allo stesso tempo. Poco perchè narra eventi molto remoti nel passato, essendo ambientato in piena Controriforma, dove il centro di gravità più che l'Italia pare essere la Germania scossa dalle Tesi di Lutero. Tanto perchè, seppur in una vesta avventurosa e romanzata, dice molto dell'Europa e, conseguentemente, dell'Italia di oggi. Tanto perchè offre una disamina incredibilmente moderna dello scontro tra religioni, oggi come ieri identificato come il luogo in cui più si realizzano le crudeltà e le nefandezze proprie dell'animo umano. Tanto perchè mostra una società viva ma bloccata dal volere dei poteri forti, siano essi i Principi tedeschi con le loro schiere di Lanzichenecchi, i banchieri di Anversa o i Pontefici di Roma. Tanto perchè, come fanno notare gli autori stessi, gli eventi della prima metà del Cinquecento hanno avuto una eco potentissima sugli eventi di quasi seicento anni dopo.

Al di là di queste importantissime sfacettature, Q è soprattutto un grandissimo romanzo d'avventura, che racconta con maniacale dovizia di particolari e altrettanta esattezza storica anni convulsi come quelli che vanno dal 1518 al 1555. Nell'impostare il loro lavoro, gli autori mi hanno ricordato Ken Follett, il quale, quando si trova a scrivere uno dei suoi (quasi sempre bellissimi) romanzi storici, cerca di inserire in modo credibile e coerente finzione e realtà. A riprova della fedeltà con cui hanno eseguito il lavoro, i "Blissets" hanno inserito dei documenti e delle mappe in appendice alla loro opera.

Senza nulla dire sulla trama, che avrà come centro di gravità la lotta a distanza tra un "rivoluzionario" tedesco e il misterioso "Occhio di Carafa" Q e che spazierà dai Lander tedeschi fino all'Olanda, Venezia ed Istanbul, con sullo sfondo un meraviglioso affresco della società dell'epoca, in perenne attesa del Regno dei Cieli, abitata da una pletora di personaggi, sia fittizi che realmente esistiti, passo direttamente a scrivere della lingua e dello stile adottato dagli autori.

Devo dire che, pur avendo una armoniosità di fondo, ognuna delle tre parti principali del libro si caratterizza per alcune sfumature linguistiche che sembrano voler tracciare la crescita fisica e caratteriale del personaggio: se nel primo terzo abbiamo a che fare un protagonista quasi timido e posato, nella parte intermedia lo vediamo più spregiudicato e sicuro di sè (anche per quanto concerne i particolari più scabrosi o piccanti), per poi notarlo come più disincantato e moderato nella parte finale del romanzo. Altro particolare interessante a mio avviso è che l'Opera, pur essendo ambientata nel XVI secolo, ha tratti di profonda modernità anche nel ritmo della narrazione e nell'asciuttezza del linguaggio.

Anche qui di difetti reali ve ne sono pochi. Anzi proprio nessuno. Un'epopea carica di pathos e spettacolarità che tutti gli amanti del romanzo storico non dovrebbero lasciarsi scappare.

[9,5]

L'Isola Del Giorno Prima


Mio secondo romanzo di Umberto Eco dopo il capolavorico Il Nome Della Rosa, questo libro, pur non riuscendo -di poco- ad essere alla pari dell'esordio del professore alessandrino, mi è piaciuto moltissimo, non solo per la qualità della prosa, ma anche perchè riesce a miscelare in modo piacevole e arguto momenti leggeri e momenti di più profonda riflessione.


Per quanto concerne la trama, essa racconta della singolare esperienza di Roberto De La Grieve, rampollo della piccola nobiltà piemontese, che si trova "naufragato su una nave", la Daphne, la quale era alla ricerca del meridiano in cui si registra il cambio di data. Impossibilitato a scendere sull'isola appena oltre questo meridano, inizia a scrivere alla sua immaginaria Amata un resoconto delle sue esperienze passate, grazie a cui il lettore capirà come mai Roberto si trovi in una così paradossale situazione.

Come sempre in un'opera di Eco, non mancano pagine di eccelsa qualità non solo letterariamente parlando, ma soprattutto per quanto concerne l'analisi filosofica e la logica. Bellissime, ad essempio, sono i capitoli in cui il protagonista immagina le reazioni del suo corpo alla decomposizione, o quando si mette a filosofeggiare su come pensino le pietre e quale sia la loro posizione nel mondo, oppure ancora quando fornisce una visione folgorante e piena di significati dell'isola immaginaria in cui un personaggio secondario trova l'inferno. Passi di grande intelligenza ma anche passi di grande letteratura, in grado di competere con nomi "pesanti" come quelli di Melville o di Coleridge.

A rendere ancora più piacevole la lettura, poi, Eco non disdegna alcune note di colore e pagine dal contenuto ben più leggero, come quando scrive delle armate del padre di Roberto che muovono guerra agli spagnoli schierati davanti a Casale di Monferrato, in quella che sembra una versione su carta dell'Armata Brancaleone di Monicelliana memoria.

Unico neo, forse, è il fatto che verso la fine sembra che l'intreccio, invero complesso ma lucido dal punto di vista logico, stesse fuggendo di mano all'autore, che infatti lascia in sospeso i destini di Roberto mentre, con la forza della disperazione e della follia che ormai la solitudine gli ha donato, si getta in mare per cercare di raggiungere l'isola "rimasta nel passato", come la chiama lui. Furbizia di Eco è stata quella di trattare la vicenda come se l'avesse scoperta e non inventata, come fece già con Il Nome Della Rosa, e proprio questo espediente permette di far terminare il racconto in un momento clou.

Oltre a cio, non vedo comunque altri difetti di un'opera che, per qualità e contenuti, ha pochi eguali non solo nel panorama italiano, ma internazionale. Gli unici confronti possibili sono quelli con altri romanzi filosofici, come I Viaggi Di Gulliver di Jonathan Swift o Candido di Voltaire.

Oppure, come sostiene Pierre Lepappe, anche questi confronti sono vani, in quanto ci troviamo davanti a un nuovo genere di racconto storico "che trova i propri fondamenti nella storia culturale piuttosto che nelle tragedie politiche e nelle alcove principesche".

[9,5]