domenica 31 ottobre 2010

Diego Armando Maradona


Ieri ha compiuto cinquant'anni Diego Armando Maradona.
Temevo non ci sarebbe arrivato, considerata l'esistenza che ha condotto sinora, tra donne, cocaina e una passione smisurata per la buona tavola, che l'hanno portato più volte in ricovero.

Ho sempre sostenuto che Maradona sia il più grande giocatore di tutti i tempi, con buona pace dei vari Beckenbauer, Cruijff, Meazza, Platini, Baggio e, soprattutto, Pelè. Ne sono convinto per svariati motivi, primo tra tutti il fatto che la Perla Nera non si è mai confrontato con campionati di livello assoluto come quello Spagnolo e quello Italiano.
Nella mia personale ottica, Pelè è paragonabile al Mosè biblico: importantissimo, prima grande stella del calcio moderno, ha dato smalto al calcio sudamericano, ma Dieguito è il Gesù Cristo del calcio: un Profeta, nettamente superiore a ogni altro giocatore a lui contemporaneo, capace di settare uno standard temporale. Dopo Diego, nulla è stato come prima, sia per le magie in campo che per la sregolatezza della vita privata. Sotto questo punto di vista, forse solo Best e Gascoigne possono competere con El Pibe de Oro.

Cosa che mi ha sempre avvicinato più a Maradona che non a Pelè è anche la sua persona: sfaccettata, contraddittoria, ma sempre veritiera e reale. Un uomo (superuomo per certi aspetti) con debolezze e passioni che l'hanno quasi distrutto. Questo è ciò che forse lo avvicina alla gente e fa in modo che sia tanto amato.
Con lui, perfino non pagare le tasse diventa un difetto veniale, il chè é tutto dire.

Per celebrarlo, mi pare il minimo dedicargli un video.

Dal Tramonto All'Alba


Visto che oggi si festeggia (si fa per dire, mi ritengo troppo vecchio e non sufficientemente rimbambito per andare in giro vestito in modo carnevalesco per celebrare l'occulto) Halloween, ho pensato di scrivere un post su un film che, tra vampiri e sangue fluente, si adatta bene all'atmosfera: Dal Tramonto All'Alba di Robert Rodriguez.

Datato 1996, il film del pupillo di Quentin Tarantino si fa notare per essere decisamente trash, violento, grottesco, in definitiva sopra le righe. Ed è proprio questo voler osare che ammalia e spinge a guardare il film, nonostante alcune trovate siano piuttosto telefonate e alcune prove d'attore veramente scadenti (tra cui quella dello stesso Tarantino).

Il film si caratterizza anche per avere due "stili": il primo rispecchia quello dei thriller che hanno reso grande Tarantino, Pulp Fiction in primis, fatto di dialoghi fulminei e geniali, personaggi surreali e scene d'azione di grande impatto. La seconda anima del film è quella da B-Movie, rozza, splatter e a tratti comica, ripresa dai grandi successi anni '80 del genere. Le due parti convivono bene e, in modo diverso, testimoniano le doti registiche di Rodriguez, vero e proprio esperto di Trash movies.

Nonostante gli innegabili difetti, la pellicola sa donare momenti indimenticabili per gli amanti della cinematografia di serie B. Su tutti, la benedizione dell'acqua utilizzata per eliminare i "vampiri del cazzo", il monologo riguardante le passere fuori dal Titty Twister, il locale per camionisti messicano in cui si svolge gran parte del film, o la pistola fallica di Sex Machine, ripresa dall'armamentario di El Mariachi, protagonista del film Desperado dello stesso Rodriguez.

A dar man forte al pacchetto, si aggiungano le numerose citazioni (quelle a Zombie 2 di Fulci e a Il Mucchio Selvaggio di Sam Peckinpah sono palesi), la colonna sonora trascinante e una buona dose di gnocca, in cui spicca, per sensualità e malvagità, la Satanico Pandemonium interpretata da Salma Hayek.

Insomma, due ore piene di tracontante ignoranza e di copiose fiumane di sangue vampiresco, ma anche di risate (altro non si puà fare davanti all'arma costruita da George Clooney o dinanzi alla chitarra umana della band) e divertimento. Io mi sento di consigliarlo per quello che è, un buonissimo B-Movie. In attesa di Machete.

[7,0]

mercoledì 27 ottobre 2010

Fragile Dreams: Farewell Ruins Of The Moon


Rilasciato sul mercato nel marzo di quest'anno a più di un anno dalla release giapponese, Fragile Dreams è stato, per me, una delle sorprese videoludiche dell'anno. Questo non tanto a causa di un gameplay calibrato al bilancino, quanto grazie a una trama, un atmosfera e una direzione artistica veramente fuori norma. Ma procediamo con ordine:

Il gioco è ambientato in un mondo devastato dalle bombe della Seconda Guerra Mondiale e dalle catastrofi naturali, non prive di qualche misterioso risvolto, in seguito alle quali l'umanità è trovata a ridosso dell'estinzione. Morto l'anziano signore che chiamava "nonno", Seto, il protagonista del gioco, rimasto improvvisamente solo, decide di avventurarsi al di fuori della sua abitazione, in cerca di altri umani e, sostanzialmente, di una speranza: trovare qualcun altro con cui condividere l'esistenza.
Poco dopo la sua partenza, incrocia una ragazza dai capelli d'argento. Impaurita, la fanciulla fugge senza stare ad ascoltare ciò che vuol dirle Seto, il quale decide di inseguirla, essenso lei l'unico umano nel raggio di miglia.
Durante il suo viaggio, Seto verrà a contatto con robot,replicanti, fantasmi, anziani in punto di morte, bizzarri maggiordomi con la testa di gallo e creature esoteriche, alcuni gli saranno apertamente nemici, altri invece collaboreranno con lui o gli chiederanno di esaudire i loro ultimi desideri.
Il tutto fino a scoprire la sconvolgente verità che si cela dietro alla fine della civiltà come noi oggi la conosciamo e sulla sparizione quasi totale della razza umana.

Come si potrà notare wiimote alla mano, la trama si rivela uno dei punti forti del gioco: saprà infatti coinvolgere anche emotivamente il giocatore, attraverso le vicende personali dei personaggi secondari e gli appunti e i graffiti sparsi in giro per il mondo di gioco, che descrivono gli ultimi attimi -o la semplice routine quotidiana, o gli aspetti oscuri della trama principale- del genere umano e trattando temi poco usuali per un videogioco come l'alienazione, la solitudine, la precarietà della vita e le difficoltà delle relazioni interpersonali.

A dare risalto alla componente narrativa di Fragile Dreams concorrono anche la regia delle cutscene, veramente ispiratissima e mai banale, e la colonna sonora, capace di risvegliare i sentimenti più disparati nel giocatore, dall'angoscia creata dagli scontri con i nemici alla tranquillità che si può provare correndo in una foresta alla luce del sole. Tale comparto è inoltre impreziosito da un uso intelligente dello speaker del wiimote, che trasmetterà scricchiollli, risate sinistre ed altri effetti sonori che non mancheranno di far correre un brivido freddo lungo la schiena dell'utente.

Ma ciò in cui l'opera del team Tri-Crescendo (famosi per aver realizzato anche Baten Kaitos ed Eternal Sonata) eccelle è la realizzazione artistica: i vari ambienti in cui si dipana il viaggio di Seto sono incredibilmente evocativi e ben interpretati dagli artisti del team, che hanno diversificato gli ambienti sbizzarrendosi tra esempi di archeologia industriale, sterili laboratori scientifici e decadenti emblemi della società del XX secolo come centri commerciali e linee ferroviarie metropolitane. Anche le scelte cromatiche sono assolutamente fuori parametro (a testimonianza di ciò, basti vedere il cielo rosato che si può ammirare fuori dalla metropolitana, il tramondo ambrato della diga o il fulgido spiccare della Tokyo Tower nell'oscurità della notte). Tutto ciò va a creare un ambiente in stato di abbandono pieno di carisma, suggestione e attrattiva, che non mancherà di colpire il fruitore del gioco.

A minare però quello che sarebbe stato un capolavoro, però, interviene la componente ludica, vero e proprio tallone d'Achille di Fragile Dreams. Pur basandosi su basi molto solide e per certi versi tradizionali, i difetti non mancano. Partendo dalla non perfetta rilevazione del sensore di movimento del Wiimote (la gran parte del gioco si svolgerà al buio, ed è quindi esenziale dotarsi di una torcia elettrica gestita via motion sensing, così come l'utilizzazione armi come le fionde o l'arco) giungendo al sistema di combattimento e al sistema di crescita del personaggio, il primo mero button smashing in cui determinante sarà la ritmicità della pressione, il secondo ridotto all'osso, visto che gli effetti dello sviluppo si vedranno solo nel progressivo allungarsi della barra della vita di Seto, Il tutto si rivela troppo piatto e senza profondità, quasi a voler contrastare la ricchezza artistica dell'opera.
Interessante invece si rivela l'uso dell'inventario, degli item curativi e delle armi, che vanno via via deteriorandosi fino a diventare inservibili, costringendo quindi il giocatore ad abbozzare una strategia, specialmente per superare i boss fight, che si fanno alquanto ostici nelle ore finali del gioco.

Tecnicamente, pur non essendo un portento, il gioco si mantiene su ottimi livelli, senza incappare in bug o rallentamenti. L'engine grafico e più che buono e pare essere diretta derivazione di quello apprezzato su Xbox 360 e PlayStation 3 con Eternal Sonata.Qualche problema lo si può notare anche nelle routine di movimento del protagonista, fin troppo legnoso e limitato nell'azione, ma nulla che incida sulla gocabilità.

Parlando infine della longevità, si può dire che essa si attesta tra le 10 e le 14 ore, a cui non possono essere aggiunte ore dedicate ad eventuali subquest, dato che non ve ne è traccia. Si potrebbe obiettare che si tratti di poche ore per un Jrpg (seppur sui generis) come Fragile Dreams, ma mi sento di assicurare che la drammaticità della trama, l'intensità dell'atmosfera e la bellezza dell'impianto visivo lasceranno comunque soddisfatto il giocatore, nonostante l'assenza di diversivi alla trama princiale e qualche momento di frustrazione, dovuto alla necessità di tornare sui propri passi per trovare la chiave o l'oggetto necessario per proseguire.

Concludendo, Fragile Dreams è un videogioco particolare, fuori dal coro per quanto riguarda l'offerta ludica sia di Wii che della attuale generazione di consoles, che fa della poesia e del coinvolgimento i suoi cavalli da battaglia, e in questo può tranquillamente ritagliarsi un posticino a fianco di mostri sacri come Ico e Shadow Of the Colossus, pur avendo sviluppato le due caratteristice succitate in modo diverso rispetto ai capolavori di Fumito Ueda. Purtroppo però i videogiochi sono anche interazione, aspetto poco curato dell'opera e che ne mina la valutazione finale. Ma se si è in grado di soprassedere a queste grosse (me ne rendo conto) lacune, si notera che ci si trova davanti a un prodotto il cui valore è decisamente superiore alla somma delle parti, un gioco che saprà intrattenere in grande stile il giocatore, facendogli al contempo sviluppare una grande empatia con il giovane e debole Seto.




[8,0]

sabato 23 ottobre 2010

Mushishi


Qualche mese fa è giunta al termine la serie di "Mushishi", manga disegnato e scritto da Yuki Urushibara che ha goduto, nell'ordine, di un caldo plauso dalla critica nel momento della sua edizione sia in Giappone, nel lontano 1999, che nel Belpaese, di una trasposizone in serie animata (graziata da una colonna sonora magnifica, in cui compare anche "The Sore Feet Song" di Ally Kerr) e di un film che ha concorso nel 2009 alla Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia.

La storia ha per protagonista Ginko, un misterioso e taciturno mushishi, definibile come una via di mezzo tra un medico e uno sciamano, che nel corso di un viaggio senza meta per le più desolate lande del Giappone risolve i problemi e le malattie causate dai mushi agli animali e agli abitanti dei luoghi da lui visitati. I mushi sono prodotti diretti del Coki, la vena di Luce da cui nasce la vita, e sono anche le forme più primitive e al contempo evolute di essa. Essi possono essere visti solo da coloro che ne hanno il dono e assumono le più svariate forme, da esseri simili a insetti ("mushi" infatti è traducibile come "insetto, blatta") a concetti astratti difficilmente definibili esseri viventi.
A ciò si aggiunga il fatto che Ginko pare avere un rapporto più intimo e particolare con gli esseri rispetto agli altri mushishi, rapporto che però verrà solo tratteggiato e lasciato all'immaginazione del lettore, che troverà con questo stratagemma stimoli per continuare nella lettura dei 10 volumi dell'opera.

Come detto, Ginko si troverà di volta in volta dinanzi ai problemi causati dalla difficile convivenza tra umani e mushi. L'autrice mantiene sempre lo stesso schema narrativo che si ripete di volta in volta (un umano malato/dotato di qualità soprannaturali che rischia di morire a causa dell'inerferenza dei mushi), ma posso assicurare che, tranne rare eccezioni, non si verrà mai a noia, anzi, grazie a una notevole capacità nel tratteggiare il carattere dei personaggi e uno stile sempre in bilico tra il fantastico e il realistico, più di una volta capiterà di concludere l'episodio soddisfatti della lettura. Oltre a ciò, è da sottolineare la bellissima atmosfera che i disegni e le storie di Mushishi sanno ricreare: pare di trovarsi in un mondo fuori dal tempo, lontano nello spazio, in cui i valori e i tratti caratteristici del Giappone ottocentesco sono tutt'altro che sepolti dall'avanzata della civiltà (che infatti è pressochè insistente nel manga).

Altra cosa che ho apprezzato parecchio è stata l'opportunità di vedere crescere e migliorare l'autrice volume dopo volume: se nei primi albi i racconti paiono essere forzatamente metafisici o banali e i disegni caratterizzati da un tratto duro e austero, col passare del tempo si vede come le sinossi si facciano più profonde ed evocative, i personaggi più vivi, il tratto più dolce e maturo, la natura (elemento fondamentale dell'opera, vista sia come meschina dominatrice che fonte di vita e sussistenza) si faccia più rigogliosa e armoniosa.

Insomma, Mushishi è un crescendo continuo, e con esso si sviluppa la sensibilità del lettore fino alla malinconica, spiazzante fine, che si vorrebbe continuamente rimandare. Da prodotto con buone potenzialità ma privo di personalità quale è nei primi albi, finisce per tramutarsi in un'opera toccante, poetica e raffinata, come un baco che diviene farfalla.

[8,5]

mercoledì 20 ottobre 2010

Arrivederci, Mostro! - Ligabue


Penso di aver ascoltato sufficientemente il disco per poter esprimere un'opinione su di esso. Penso inoltre di essere sufficientemente incompetente (così come lo sono per libri, cinema, videogiuochi e chissà cos'altro ho trattato in questi due anni) per poterne scrivere una recensione. Ergo, il mio debutto nella critica musicale indipendente!

Tracklist:

1.Quando Canterai La Tua Canzone - 3:36
2.La Linea Sottile - 4:05
3.Nel Tempo - 3:50
4.Ci Sei Sempre Stata - 5:00
5.La Verità è Una Scelta - 4:20
6.Caro Il Mio Francesco - 6:02
7.Atto Di Fede - 4:13
8.Un Colpo all'Anima - 3:22
9.Il Peso Della Valigia - 4:40
10.Taca Banda - 2:33
11.Quando Mi Vieni a Prendere? (Dendermonde 23/01/09) - 7:05
12.Il Meglio Deve Ancora Venire - 4:23

Rilasciato lo scorso 11 maggio, a vent'anni di distanza dal disco d'esordio, "Arrivederci, Mostro!" è il nono (se escludiamo raccolte e live) album di Ligabue. Il disco si è anche ben distinto sul mercato, piazzando sinora 300.000 copie, dimostrando che il rocker emiliano, nonostante gli anni passino, riesce ancora a fare buoni numeri e conquistare nuovo pubblico.

Passando all'esame del disco, c'è da dire che si avverte un declino rispetto agli album precedenti, sia perchè alcune canzoni paiono il sequel di precedenti successi, sia perchè pare che il cantautore si sia limitato a svolgere bene il "compitino", nonostante il tempo per mettere assieme un album di livello non gli sia mancato ("Nome e Cognome", infatti, risale al 2005).

I Sequel a cui alludevo prima possono essere rintracciati nei brani "Il Meglio Deve Ancora Venire" (sorella minore di "Urlando Contro il Cielo") e "Atto di Fede", che pare far il paio, non tanto nel suono, quanto nello spirito, a "Niente Paura". Non che sia un male riprendere e approfondire talune tematiche, ma io ho letto questo fattore come una mancanza di inventiva e, se vogliamo, come un ascesso di nostalgia.

Brani che invece mi hanno lasciato un'impressione positiva sono sicuramente "La Linea Sottile", se non altro per l'evocativa atmosfera che sa ricreare, e "La Verità è Una Scelta", la canzone più dura e decisa del disco, e "Quando Mi Vieni a Prendere?", pezzo dedicato alla tragedia di Dendermonde, quando un pazzo fece irruzione in un asilo uccidendo due bambini e un adulto. Per quanto possa apparire fuori luogo (e lo è senza dubbio), ho ammirato la scelta di inserire nel disco questo brano, pesante e a tratti angosciante, agli antipodi rispetto al resto della scaletta. Per lo meno, l'album acquisisce personalità. Anche la ballata sentimentale dell'album, "Ci Sei Sempre Stata", pur nella sua poca originalità sa farsi apprezzare.

Cestinabili senza rimorsi "Un Colpo all'Anima" e il suo assolo di chitarra che, oltre ad essere poco consono al resto del brano, pare una storpiatura di assoli degli Audioslave; "Caro Il Mio Francesco", che riprende "L'Avvelenata" di Francesco Guccini e definito dallo stesso Ligabue "un pezzo inutile", "Taca Banda", altro brano di cui non si capisce il senso e "Il Peso Della Valigia", una poesia già edita dall'autore e riadattata in musica.

Concludendo, non un pessimo album, ma sicuramente peggio del penultimo "Nome e Cognome" e immensamente più debole di "Buon Compleanno Elvis", tuttora considerato il picco più alto mai raggiunto della produzione del cantautore di Correggio.
Come già detto, sembra che ci si sia limitati a fare qualcosa di orecchiabile (altrimenti non si spiegherebbero brani da teen band come "Quando Canterai La Tua Canzone" e "Nel Tempo", pezzo che cerca di "farsi figo" citando Falcone e Borsellino) nel tentativo malriuscito di svecchiare un pò il sound per piacere ai più giovani e per dare il contentino ai fan.
Da Ligabue, però, ci si aspetta di più.

[6,5]

giovedì 14 ottobre 2010

Il Maledetto United


L'inghilterra, si sa, è la patria del calcio. E anche dei film sul gioco del calcio, visto che, a parte casi eccezionali, le pellicole migliori su questo sport trovano la propria origine nella terra d'Albione.

Tra queste, una delle più interessanti e appassionanti è Il Maledetto United, film di Tom Hooper basato sul romanzo di David Peace, anch'esso di pregevole fattura, sicuramente migliore del fin troppo blasonato (senza meriti effettivi) Febbre a 90 di Nick Hornby.

Il film racconta la vita professionale e privata di Brian Clough, considerato ad oggi il più grande allenatore che l'inghilterra abbia mai avuto, negli anni che vanno dal 1969 al 1974, ripercorrendo la grandiosa epopea del Derby Contry, capace in soli due anni di vincere il campionato di Seconda Divisione e, l'anno successivo, la Premier League (fatto che non si è mai più verificato in Inghilterra) e di giungere, nel terzo anno della gestione Clough/ Taylor (l'inseparabile vice e talent scout con cui Clough condivise praticamente tutta la carriera da allenatore) alle semifinali di Coppa Dei Campioni, Coppa che (ahimè) venne vinta dall'Ajax in finale contro la Juventus.

Entrati in rotta di collisione con il presidente del Derby, i due si dimettono e si separano: Taylor accetterà di allenare il Brixton in Terza Divisione, e Clough si trova davanti all'occasione della vita: allenare la squadra allora più forte d'Inghilterra, il Leeds United. Occasione che verrà amaramente troncata con l'esonero dopo appena 44 giorni da manager dei Peacocks. Come ci racconta la storia del Calcio, però, i due si rincontreranno e porteranno una piccola squadra di provincia come il Nottingham Forest a vincere due Coppe dei Campioni consecutive.

Del film mi è piaciuta molto da netta demarcazione tra i personaggi: Taylor è un uomo buono, capace ma senza ambizioni; Don Revie (acerrimo rivale e vera e propria nemesi del protagonista) pare l'uomo perfetto: il miglior allenatore della migliro squadra del Paese, serio, professionale ma non dotato di vero talento; Clough è una sorta di Josè Mourinho ante litteram: ambizioso, carismatico ma troppo pieno di sè. Dal quadro emerge una situazione in cui nessuno è completamente un "buono" o un "cattivo", ma sono tutti uomini con pregi e difetti, senza idealizzazioni.

Il film, che dura esattamente 90 minuti, non può fare a meno di appassionare i fan del calcio e (immagino) i tifosi del Leeds, che avranno versato sicuramente più di una lacrima ricordando il loro glorioso passato, quando giocatori come Bremner, Giles o Reaney divennero gli alfieri di una squadra da leggenda. Ciononostante, sono convinto che anche i "non-fanatici" di sport possano trovar interessante questo film, proprio grazie all'ottima caratterizzazione dei personaggi summenzionata e alla tinta drammatica che assumono di giorni della permanenza di Clough al Leeds, fatta di insonnie, alcol e rapporti difficili con la squadra.

[8,0]

Metafisica Dei Tubi


Più che una recensione, è bastante scrivere un'opinione su questo libercolo di circa 120 pagine, capace nonostante la brevità di regalare momenti assolutamente esaltanti.

Opera dell'affascinante scrittrice Amelie Nothomb, belga di lingua francese nata in Giappone, Metafisica Dei Tubi è una sorta di autobiografia dell'autrice nei suoi primi tre anni di vita, trascorsi con la famiglia nel Paese del Sol Levante.

Il punto forte del libro è senza dubbio il lessico e il piglio della scrittrice, che si rivela una vera maestra nell'arte di "rielaborare" i momenti più importanti della vita di un infante in un'ottica assolutamente originale e non convenzionale. Caratteristiche che risaltano appieno nelle prime trenta pagine, a mio avviso la parte più riuscita del libro, dinanzi alle quali il lettore, spiazzato dalla forza espressiva della Nothomb, non realizza se sta leggendo alcune delle verità più profonde e seducenti che abbia mai conosciuto in vita sua o si trovi davanti a una serie di stupidaggini senza senso. Un sentimento che mi ha meravigliato.

Purtroppo non tutto il libro mantiene la qualità e la folgorante bellezza di queste pagine iniziali, tant'è vero che solo verso la centoquindicesima pagina (su centoventi) lo stile summenzionato torna a mostrarsi. E' doveroso sottolineare però che, anche nella parte centrale dell'opera, molti episodi sanno comunque essere evocativi e profondi nel significato, ma si tratta di mosche bianche nello sciame di eventi dipanati dall'autrice.

Come concludo? Dico che Metafisica dei Tubi è uno dei romanzi più strani che abbia mai letto, un prodotto senza dubbio notevole ma minato da alcune scelte della scrittrice che, a mio parere, fanno perdere smalto e ritmo al racconto. Dovessi limitare il giudizio alle prime pagine, sarebbe un 9 pieno ma, come detto, gli alti e bassi dell'opera ne minano la votazione.

[7,5]