martedì 23 novembre 2010

Vieni Via Con Me



Finalmente, dopo due puntate perdute, son riuscito a vedere Vieni Via Con Me, il noto programma di Fabio Fazio e Roberto Saviano, incensato da più parti come emblema della tv di qualità, che si occupa di informare e fare cultura. Nel sentire questo miele giungere alle mie orecchie, di primo acchitto non potei far altro che pensare che Fazio, dopo Che Tempo Che Fa, fosse riuscito in un'altra impresa: portare in prima serata un programma di qualità, con uno stile garbato e poco incline allo show fine a se stesso.

E in effetti Vieni Via Con Me è proprio quello che ho scritto nelle righe precedenti, ma con alcune eccezioni.
Anzitutto, vorrei sapere dov'è tutta la cultura di cui parlano. Siate comprensivi e spiegatemi: leggere degli elenchi (il più delle volte opera degli autori e non degli ospiti più o meno autorevoli intervenuti) sarebbe far cultura?
Posso capire (e ho apprezzato) i monologhi di Saviano sul fenomeno mafioso, anche se qualche cantonata l'ha presa anche lui, come ha dimostrato Roberto Maroni. Però, in linea di massima, l'autore di Gomorra il suo lo fa, e lo fa anche bene.
Ma le liste...diamine, tre quarti della trasmissione consiste nel leggere liste, dal contenuto patetico e scontato invero, e volete fa passare che leggere una sequela di frasi fate in due minuti netti equivalga a far divulgazione culturale?

Per non parlar poi dei lettori. Si va autentici colpi di genio (ascoltare Renzo Piano è sempre un piacere) a qualche scelta poco ragionata (il rifugiato politico congolese, introdotto senza nemmeno spiegare la situazione del Congo) a vere e proprie scelte di cattivo gusto (la sorella di Stefano Cucchi. Per inciso, non sto dicendo che quella di Cucchi sia una fine giusta e meritata, ritengo che casi come il suo non debbano mai accadere, ma leggere uan serie di pregi di un tossicodipendente in prima serata non mi pare una bella scena).

Mi aspettavo inoltre che non ci fosse una chiara colorazione politica, anche se già vederlo su Rai Tre avrebbe dovuto insospettirmi. Sospetti confermati: a parlare dei (pardon, leggere liste sui) diritti delle donne chiamate Emma Bonino, Susanna Camusso e Laura Morante. Sarà, ma mi paiono scelte alquanto faziose, faziose come i contenuti delle loro letture.

Da promuovere a pieni voti invece Corrado Guzzanti, caustico e cinico come sempre. Il suo sketch, insieme al monologo di Saviano sul rapporto tra mafia e monnezza, è certamente la parte meglio riuscita della trasmissione.

In chiusura, non capisco tutto il rumore fatto attorno a questo programma. Fa informazione? Sì e anche discretamente bene. Intrattiene? Sì, con ritmi e modi diversi dal concetto classico, ma riesce a fare anche questo. Fa cultura? No. Dove sarebbe la cultura? nella Lista della Bonino?
Fa pensare? Solo Saviano, il resto ha un non so chè di vuoto pneumatico.

Come sono i conduttori? Lo scrittore si destreggia bene anche se ormai mi pare prigioniero del personaggio che si è venuto a creare dopo il successo planetario di Gomorra, Fazio è la solita pera cotta che fa anche la figura del cioccolataio davanti al ministro dell'interno.

Questo programma mi pare la versione 2.0 dello Speaker's Corner di Hide Park, con la differenza che qui parla chi va a genio degli autori (giustamente, ma non condivisibilmente) e gli si fa dire ciò che si vuol dire, che il più delle volte mira alla banalizzazione e alla drammatizzazione eccessiva di problemi che tutti gli Stati hanno (come lo snocciolare dati sugli omicidi nelle carceri, come se solo in Italia accadano fatti deprecabili e da cancellare come questi).

Come si sarà intuito dal tenore del post, un programma da bocciare su (quasi) tutta la linea. Fa parlar di sè solo perchè in Italia non c'è un programma simile che faccia (o tenti di fare) cultura, per lo meno sulle Tv in chiaro.

domenica 21 novembre 2010

Il Caso Foxconn

Riporto qui nella sua interezza un articolo scritto da Marco Tinè e apparso originariamente su Insidethegame.it dedicato a Foxconn, la società che produce per alcuni colossi dell'industria elettronica di consumo come Apple, Nintendo e Dell.
A corredo dell'articolo, nella versione originale, era presente un video che ho ritenuto non fondamentale per la comprensione del tema, e che quindi non ho riportato.





“Morire è l’unico modo per dimostrare di essere esistiti.
Probabilmente, per gli operai di Foxconn e per quelli come noi
che vengono chiamati “nongmingong”, lavoratori rurali migranti,
suicidarsi in Cina serve semplicemente a testimoniare di non avere affatto vissuto,
e che vivendo si è solo andati incontro alla disperazione.”

(Dal blog di un operaio, dopo il dodicesimo suicidio in Foxconn)

1.1 Introduzione – Suicidi in Foxconn

In quello che il sottoscritto, unitamente allo staff di Inside the Game, ritiene essere un gesto responsabile da parte di chi fa informazione legata al videogioco, dedichiamo questo articolo di approfondimento ai tragici eventi occorsi negli stabilimenti cinesi di Foxconn, gigante della manifattura elettronica presso cui dal Giugno 2007 si sono susseguiti 18 decessi, tra cui 15 tentativi di suicidio tristemente giunti a compimento in 13 occasioni. Le restanti morti includono casi di sospetto omicidio. Tra i clienti di Foxconn figurano Apple, Dell ed Hewlett-Packard, ma anche Sony, Microsoft e Nintendo: questa congiuntura con il mondo dei videogiochi porta a riflettere profondamente sui costi “occulti” del nostro divertimento, quelli che non si riflettono direttamente sul nostro bilancio di fine mese ma interessano la vita di chi lavora strenuamente – e spesso in condizioni al limite della dignità – per rifornire i mercati mondiali di console, telefoni cellulari, componenti per PC e quant‘altro.
Nell’indagare le ragioni dei suicidi (ma anche di decessi strettamente legati alle condizioni professionali in Foxconn), apriremo piccoli spiragli sulla mentalità imprenditoriale in potenze emergenti come la Cina, e su problematiche legate ad una possibile etica del consumo per chi come noi acquista beni prodotti nella regione.

1.2 Cronologia degli eventi

18 Giugno 2007 – La 19enne Hou, della provincia dell’Hunan, si impicca nella toilette del proprio dormitorio. Due settimane prima, aveva espresso ai genitori il desiderio di licenziarsi dopo aver ritirato il proprio stipendio.

1 Settembre 2007 – Liu Bing, 21 anni, addetto allo scaricamento di merci pesanti, muore due ore dopo essersi licenziato da Foxconn. Il Southern Metropolis Daily imputa il decesso all‘eccessivo carico di lavoro.

16 Gennaio 2009 – Feng, laureato 23enne, si lancia dal 14 piano del suo stabilimento lasciando una nota: “Troppa pressione al lavoro – emozioni instabili”. Al giovane erano stati negati i bonus di produttività.

21 Luglio 2009 – Sun Danyong, 25 anni, impiegato amministrativo presso lo stabilimento di Shenzhen, si lancia dalla finestra del suo appartamento al 12esimo piano. Accusato di aver trafugato un prototipo di iPhone 4G, Sun era stato trattenuto in isolamento dal personale di sicurezza dell’azienda, interrogato e picchiato, mentre l’appartamento veniva perquisito. Nelle sue ultime ore, confidava agli amici: “Sapendo che domani non verrò maltrattato ed usato come capro espiatorio, mi sento molto meglio”. Apple è successivamente intervenuta sulla questione, conducendo un’inchiesta personale ed esigendo dal fornitore un trattamento dignitoso e rispettoso della propria forza lavoro.

8 Gennaio 2010 – Rong Bo (età sconosciuta) muore saltando dal tetto del proprio dormitorio.

23 Gennaio 2010 – Ma Xiangqian, 19 anni, viene trovato cadavere in fondo alle scale del proprio dormitorio in Foxconn. Le due sorelle accusano l’azienda di averlo picchiato a morte (“c’erano graffi sul suo corpo – il petto era ricoperto di lividi, dalla bocca e dal naso usciva del sangue, ed aveva una grossa ferita sulla fronte”), e la stampa locale parla di un suo trasferimento alla pulizia delle toilette dopo avere accidentalmente danneggiato dell’equipaggiamento. Foxconn nega ogni responsabilità.

23 Febbraio 2010 – Wang Linyang, 16 anni, muore nel suo dormitorio in seguito a crisi cardiaca.

17 Marzo 2010 – Li, 20 anni, si lancia dal quinto piano del suo dormitorio dopo aver scoperto che i suoi risparmi erano stati rubati.

29 Marzo 2010 – Tian Yu (età sconosciuta) sopravvive dopo essersi gettata dal suo dormitorio. Ha successivamente rifiutato ogni contatto con la stampa per chiarire le circostanze del suo gesto.

6 Aprile 2010 – Liu Zhijun, laureato 23enne, muore dopo esser saltato dal 14esimo piano del suo dormitorio.

7 Aprile 2010 – Rao Leqin, 18 anni, tenta di togliersi la vita lanciandosi dal settimo piano del proprio dormitorio, ma un albero attutisce la caduta e la salva. Tra le cause del gesto, l’estensione dei turni lavorativi a 12 ore e nelle ore notturne, la paura di perdere il salario residuo in caso di dimissioni.

6 Maggio 2010 – Ning, 18 anni, muore dopo essersi lanciata dal tetto di un edificio aziendale.

7 Maggio 2010 – Lu Xin, laureato di 24 anni, si suicida saltando dal sesto piano. Secondo gli amici, soffriva di manie di persecuzione ed era sull’orlo del tracollo psicologico a causa dell’eccessiva pressione lavorativa. Lu era un allievo di Liu Zhijun, morto in Foxconn il 6 di Aprile.

11 Maggio 2010 – Zhu Chenming, 24 anni, muore dopo essersi lanciata dal tetto di un edificio aziendale. Le telecamere di sicurezza hanno ripreso il terribile evento, mostrato poi dai telegiornali nazionali.

14 Maggio 2010 – Liang Chao, 21 anni, muore dopo essersi lanciato dal tetto di un edificio aziendale.

26 Maggio 2010 – Li Hai, 19 anni, si toglie la vita saltando da un edificio a soli 42 giorni dalla sua assunzione in Foxconn. Nonostante il giovane abbia lasciato al padre un biglietto di commiato (“Sono un uomo privo di capacità, ho avuto ciò che meritavo”), la polizia ritiene che non si sia trattato di suicidio.

2 Giugno 2010 – Yan Li, 28enne, perde la vita dopo un massacrante turno da 34 ore nello stabilimento Foxconn di Shenzhen.

5 Novembre 2010 – Un impiegato dal nome non rivelato precipita da un edificio dello stabilimento di Shenzhen perdendo la vita. Le autorità locali hanno confermato l’avvenuto, ma senza dettagliarne le circostanze.

Nell’analizzare questa catena di tragici avvenimenti, emergono dei tratti comuni strettamente correlati: la giovane età delle vittime, la loro provenienza da zone rurali e quindi molto povere della Cina, e le accuse di sfruttamento inferite nei confronti di Foxconn. Quest’ultimo elemento trova gravi riscontri non solo nelle ultime testimonianze delle vittime, ma anche in reportage giornalistici nazionali e nelle vivaci proteste di gruppi locali per la protezione dei diritti umani.

1.3 Altri casi di suicidio in ambito professionale (France Telecom)

Il processo di industrializzazione cinese sta generando dei cambiamenti nella realtà del lavoro che i giovani del luogo affrontano con enormi difficoltà. Si tratta delle stesse difficoltà che Europa ed America affrontarono a cavallo tra i secoli 18esimo e 19esimo, e poterle osservare oggi attraverso la lente di ingrandimento dei media offre un’opportunità unica di raffronto con la realtà odierna. Tra il 2008 ed il 2009, ad esempio, una serie di 23 suicidi in France Télécom scioccò l’opinione pubblica francese innescando un significativo processo di autoesame: da studi socio-psicologici emerse che sino alla fine degli anni ‘80, il popolo di Francia trovava il suo “cemento sociale” proprio nel posto di lavoro e nei legami che in esso si creavano. La competitività odierna, al contrario, tende a distruggere questi legami e a generare un senso di abbandono che, in congiunzione con eventuali problematiche personali (divorzi, amicizie compromesse e quant’ altro), può sfociare nell’estremo del suicidio.

Come tra poco vedremo nel paragrafo dedicato alle condizioni di lavoro in Foxconn, esistono analogie tali da indurre a pensare che persino nei paesi più ricchi determinate difficoltà non siano state del tutto superate. Al giorno d’ oggi, ciò che accade nella vita professionale influenza gli equilibri individuali sin negli strati più profondi, e questo è vero in qualsiasi luogo del mondo ove si abbraccino modelli di sviluppo capitalistici – indipendentemente dalle differenze etniche e culturali.

1.3 Condizioni di vita in Foxconn e testimonianze dagli stabilimenti

Gran parte della forza lavoro di Foxconn è costituita dai cosiddetti “lavoratori rurali migranti” (“nongmingong”), ossia giovani che affluiscono dalle provincie contadine in cerca di impieghi moderni e remunerativi. Sono generalmente più istruiti dei loro genitori (talvolta persino laureati) e disposti a lavorare duramente per migliorare la propria condizione, ma nonostante ciò non sanno come innescare il cambiamento: per questa ragione, si presentano alle industrie come “materiale vuoto” da riempire facendo esperienza sul campo. L’esperienza presso Foxconn inizia generalmente con un contratto nel quale il neoassunto si impegna a non svelare a nessuno la natura del proprio lavoro, compresi i compagni di dormitorio – una misura necessaria presso un’azienda nella quale si producono spesso prototipi e nuovi dispositivi non ancora svelati al mercato. Per questa ragione, personale di sicurezza appositamente addestrato monitora ogni reparto degli stabilimenti ed impedisce ad eventuali curiosi di avvicinarsi al loro perimetro esterno, con metodi talvolta bruschi che polizia locale tollera.

Secondo un rapporto del SACOM, i turni di lavoro durano da 10 a 12 ore e si svolgono in un clima “teso ed atomizzato”, dove nel più assoluto silenzio ogni operaio reitera gesti monotoni ad un ritmo forsennato. I responsabili di reparto dettano i tempi di assemblaggio usando un cronometro e redarguendo aspramente chi non riesce a tenere il passo. Ecco la testimonianza di un anonimo lavoratore resa all’ente China Labor Watch:

“Terminiamo uno step in 7 secondi, quindi bisogna concentrarsi e lavorare senza fermarsi. Siamo persino più veloci delle macchine. Ad ogni turno assembliamo 4000 computer Dell, stando sempre in piedi. Riusciamo ad evadere queste richieste sforzandoci collettivamente, ma molti di noi sono sull‘orlo dell‘esaurimento”.

L’azienda impone il lavoro straordinario solo di fronte a particolari esigenze di produttività, ma molti operai preferiscono ricorrervi egualmente per corroborare un salario di base che ammonta a soli 900 yuan (106 euro). In regime di straordinario imposto, non è noto alcun limite massimo per il sovraccarico orario. Nel video più in alto, un lavoratore denuncia oltre 100 ore di straordinario mensile.

Nelle due ore di pausa concesse a metà giornata (non comprese nella durata del turno), gran parte degli operai consuma in fretta il proprio pasto per poter riposare in dormitorio nel tempo guadagnato; pochi altri preferiscono prendere una boccata d’aria all’esterno dei reparti. La stessa condizione si verifica a fine giornata, dove lo spazio per il dialogo con i propri colleghi è ridotto al minimo: in altre parole, un operaio può lavorare per diversi mesi in uno stabilimento Foxconn senza riuscire a far conoscenza con i compagni di dormitorio. Non va meglio a chi, insieme ad altri operai, decide di affittare una casa al di fuori degli stabilimenti, dal momento che i “nonmingong” non vengono riconosciuti come cittadini dalle comunità locali e pertanto non possono accedere ai servizi pubblici di base.
La mancanza di legami tra il personale ed il fenomeno di emarginazione sociale al quale gli operai sono soggetti configurano uno scenario nel quale la volontà e la tenuta psicologica individuale vengono messi a dura prova. Per usare le parole di Li Qiang, direttore esecutivo di China Labor Watch, “questi giovani lavoratori hanno la sensazione che nessuno si prenda cura di loro”.

Alla luce di queste realtà, largamente note in Cina come nella comunità internazionale, ci si può chiedere per quale motivo i giovani del posto continuino ancora oggi ad affluire agli stabilimenti di Foxconn. Il motivo è in realtà molto semplice: per quanto esiguo, il salario in Foxconn è sempre garantito e commisurato alle ore di straordinario prestate. Questa certezza rinforza nei lavoratori la convinzione che quell’azienda sia il posto migliore per accumulare risparmi, e la speranza di potere un giorno uscire fuori dal giro con denaro a sufficienza per realizzare i propri progetti personali.

1.4 Dalle manopole in plastica ad iPhone 4: cos’è Foxconn

Come ama ripetere il fondatore e presidente di Foxconn, Terry Tai-Ming Gou, “è facile ammassare armate di migliaia di uomini, ma è difficile trovare un solo generale”. Ed proprio con l’appellativo di “Generale” che la stampa internazionale usa riferirsi a questo intraprendente manager taiwanese, la cui azienda è oggi la più grande produttrice di componenti elettroniche al mondo. La carriera di Gou iniziò a 24 anni, nel 1974, con un prestito da 7.500 dollari richiesto alla madre: con quel denaro acquistò due macchinari per la modellazione della plastica ed aprì una piccola attività in un sobborgo di Taipei chiamato Tucheng (“La Città Sporca”). Il primo cliente fu l’americana Admiral TV, che gli commissionò delle manopole per la selezione dei canali nei suoi televisori in bianco e nero. Successivamente arrivarono accordi con RCA, Zenith e Philips che resero Hon-Hai nota negli Stati Uniti (questo il nome originario di Foxconn).
Nel 1980, Gou firmò un fortunato accordo con Atari per la produzione di connettori destinati alle storiche console 2600, e colse l’occasione per registrare le creazioni tecnologiche della sua azienda: per allora, il manager aveva imparato a scrivere il proprio nome in inglese e si preparava a quella che potremmo definire una vera e propria impresa, ossia visitare le aziende di 32 stati U.S.A. in un tour da 11 mesi, alla ricerca di accordi sempre più proficui. In quell’occasione, Gou viaggiò in una Lincoln presa a noleggio dormendo in diverse occasioni nel sedile posteriore per contenere i costi. Finì per strappare un contratto ad IBM, ed al suo ritorno in Cina quotò Hon-Hai in borsa finanziando la creazione di un enorme complesso a Longhua nel distretto dello Shenzhen: era il 1988.

Il numero di operai continuava a crescere, e Gou comprese che era necessario affiancare agli stabilimenti industriali una serie di strutture che potessero ospitare la forza lavoro e provvedere ai suoi bisogni: con uno sforzo economico che nessun concorrente straniero avrebbe mai attuato in territorio comunista, si costruirono dormitori, lavanderie, caffetterie, postazioni mediche ed antincendio. Sotto lo sguardo incredulo degli investitori occidentali, il complesso di Longhua raggiunse le proporzioni record di 3 chilometri quadrati configurandosi come una sorta di piccola città dotata di una rete televisiva autonoma.

A metà degli anni ’90, la partnership tra Foxconn e Compaq evidenziò l’incredibile capacità di Gou di organizzare il lavoro nei propri stabilimenti: i macchinari trasformavano semplici blocchi di metallo in chassis per computer che passavano alle catene di montaggio, e venivano integrati con alimentatori, floppy drive e cavi di connessione. Al committente giungeva perciò un prodotto già pronto ad ospitare motherboard, CPU, memorie ed hard disk con procedure di montaggio semplici ed economiche. Questa tecnica produttiva, unita alla velocità ed al basso costo di manifattura, fece si che aziende come IBM, Apple, Dell ed HP saltassero sul vagone di Gou senza pensarci due volte.

I clienti attribuiscono largamente la fortuna dell’imprenditore taiwanese alla condotta aggressiva con cui porta avanti gli accordi commerciali. L’obiettivo principale di Gou consiste nel far si che la maggior parte dei componenti necessari alla produzione di un qualunque bene avvenga in Foxconn o altre aziende ad essa collegate. Per fare ciò, egli è disposto ad assumersi oneri economici e rischi di grande entità, come nel caso di iPhone 4: un componente metallico risultava di così difficile produzione da richiedere l’impiego di un macchinario specifico prodotto dalla giapponese Fanuc, e destinato a prototipi. Per nulla intimidito dal costo elevato del macchinario (oltre 20.000 dollari), Gou ne acquisì oltre 1000 esemplari consentendo ad Apple di avviare la produzione di massa del suo smartphone.

1.5 Damage control: le strategie del presidente Terry Gou e dei clienti Foxconn

L’atteggiamento di Gou è dunque tale da cementare in maniera quasi indissolubile il rapporto di fiducia con i clienti, anche di fronte a tragedie come i suicidi di cui parlavamo in apertura. Per questa ragione aziende come Apple, HP, Nintendo e Sony invitano volentieri Foxconn a migliorare le condizioni di lavoro dei suoi dipendenti, ma si guardano bene dal mettere in discussione i loro rapporti commerciali con il gigante cinese. In condizioni del genere, quale può essere il significato e la credibilità delle inchieste avviate nei mesi scorsi da certi committenti storici di Foxconn, aldilà di scongiurare eventuali ed infamanti accuse di inerzia? Ecco cosa affermava Nintendo all‘alba del quattordicesimo suicidio:

“Prendiamo molto sul serio le responsabilità derivanti dal nostro ruolo di compagnia globale, e ci atteniamo ad una polizza etica riguardo alla commissione, alla manifattura ed alla qualità del lavoro. Per garantire l’espletamento delle nostre responsabilità sociali presso i nostri fornitori, abbiamo istituito nel Luglio del 2008 le ’Nintendo CSR Procurement Guidelines’. Esigiamo che tutti i partner di produzione, inclusa Foxconn, si attengano a queste linee guida basate su leggi, standard internazionali e direttive connesse.”

Più lapidaria la reazione di Sony, che in un comunicato stampa informava:

“In risposta ai recenti rapporti, Sony ha cominciato ad attuare misure per valutare nuovamente le condizioni di lavoro in Foxconn.”

Supponendo che le aziende abbiano effettivamente condotto delle verifiche sui luoghi incriminati, per quale ragione l’ opinione pubblica è ancora all’ oscuro dei loro esiti? Non è forse il dovere di informazione incluso tra le responsabilità sociali di questi produttori verso i loro clienti? L’unica risposta in questo senso è arrivata da Apple, che dallo stabilimento Foxconn di Shenzen vede giungere la totalità dei suoi i-Devices (iPhone, iPad, iPod e computer Mac). Il presidente Steve Jobs ha personalmente visitato le fabbriche cinesi asserendo poi nel corso di una conferenza:

“Entri in questo posto ed è un’ industria ma, cavoli, hanno ristoranti e cinema, ospedali e piscine. Per essere un’ industria, è piuttosto bella […] Foxconn non è una fabbrica di sudore [= dall'espressione americana 'sweatshop', ossia luogo di sfruttamento, ndr]”

Michael McNamara, presidente della ditta americana Flextronic, ritiene che l’ ambiente di lavoro offerto dalla concorrente cinese non sia affatto tra i più ostici, alludendo al fatto che fuori da li ci sia anche di peggio:

“Non riesco a credere che non esistano posti di lavoro peggiori di Foxconn, se a qualcuno non piace lavorarci può sempre andare in strada e trovare altri 10 impieghi”

Questo è il totale dei riscontri che l’industria occidentale ha offerto in relazione ai suicidi negli stabilimenti di Foxconn, dove il presidente Terry Gou ha adottato diverse misure per contrastare il tragico fenomeno. In un’intervista al Bloomberg Newsweek, Gou ha ammesso di avere inizialmente sottovalutato il problema ritenendolo inevitabile in un ambiente che ospita oltre 800.000 lavoratori; solo dopo il quinto suicidio si è ritenuto di dover intervenire con decisione. Oltre ad includere nelle fabbriche dei centri di assistenza psicologica aperti 24 ore su 24, gli edifici aziendali son stati circondati da reti atte a scoraggiare ulteriori gesti estremi. L’effetto visivo, come potete constatare nelle immagini a corredo dell’articolo, è piuttosto alienante. Decisamente più incoraggianti sono state le manovre relative ai salari, aumentati del 30% nel mese di Marzo (129,41 euro) e addirittura del 66% in Giugno (215 euro), seguiti da piani per l’apertura di nuovi stabilimenti a Zhengzhou, nella provincia rurale dell’ Henan, da cui proviene 1/5 della forza lavoro di Foxconn. Così facendo, Gou spera di avvicinare i suoi lavoratori ai luoghi di origine ed ai loro affetti, ma ha richiesto al contempo l’ intervento del governo provinciale affinché la costruzione di dormitori [potesse aver luogo, aggiunta mia]

Contemporaneamente l’azienda ha sospeso le ragguardevoli compensazioni spettanti alle famiglie dei dipendenti suicidi, consistenti in 110,000 yuan (quasi 12.000 euro) che finivano per trasformarsi in un paradossale incentivo a togliersi la vita. In sede di contratto, i nuovi lavoratori firmano adesso una clausola nella quale si impegnano – pensate un po’ – a restare vivi. Tra le altre iniziative promosse da Gou citiamo un mastodontico “Festival della Vita” tenutosi nel mese di Maggio, dove famosi cantanti ed attori hanno intrattenuto i dipendenti invitandoli a riscoprire la gioia ed il valore della vita, e persino l’intervento di monaci buddisti che liberassero i locali aziendali dagli spiriti maligni.

1.6 La lotta per i diritti di SACOM, movimenti di protesta (proteste in fabbriche cinesi Honda) e nuovi rapporti

Le dure condizioni di vita dei lavoratori in Foxconn sono state portate all’attenzione generale da due organizzazioni, ossia il SACOM (Students & Scholars Against Corporate Misbehaviour, autore del più approfondito rapporto sulle difficoltà dei lavoratori rurali migranti) e l’osservatorio sul lavoro China Labor Watch, responsabili di manifestazioni in Hong Kong nelle quali si chiedeva alla compagnia di salvaguardare i diritti e la dignità dei dipendenti. Ad avvalorare la battaglia dei due enti è giunto un reportage della pubblicazione Southern Weekly, che nel mese di Maggio ha inviato il giovanissimo reporter Liu Zhi Yi all’interno dello stabilimento di Shenzen sotto mentite spoglie: in 28 giorni di permanenza, il giornalista ha potuto toccare con mano i disagi del personale fornendo gran parte del materiale che ritrovate in questo articolo, ma soprattutto degli argomenti in grado di scuotere le coscienze dei lavoratori cinesi.
In seguito agli aumenti salariali operati da Foxconn, altre aziende nel Sud della Cina hanno visto i propri operai incrociare le braccia contro i datori di lavoro: nello stabilimento Honda di Foshan (stessa città dove in queste ore, dipendenti Foxconn scioperano in massa e l’azienda tenta di insabbiare la vicenda), la produzione è stata bloccata ad intervalli regolari da scioperi ben organizzati, un fenomeno difficile da vedere in un paese in cui il diritto di aggregazione dei lavoratori non è riconosciuto. Grandi fabbriche come la KOK nel Kunshan (produzione di pneumatici) e la Jiashian di Sanggang (componenti elettronici) sono state protagoniste di scontri tra operai e forze dell’ordine, rivendicando diritti il cui riconoscimento sarebbe bloccato da connivenze tra gli imprenditori ed il Partito Comunista. Di fronte alla repressione, diversi giovani scelgono di tornare ai paesi d’origine attuando esattamente ciò che gli imprenditori cinesi temono, ossia una fuga della forza lavoro alla quale si potrà rispondere unicamente aumentando gli stipendi: sono queste le avvisaglie di un cambiamento che nei prossimi decenni interesserà profondamente il mercato del lavoro e l’intera società cinese.

In ultima analisi, non sorprende vedere come gli insegnamenti di Karl Marx regolarmente impartiti nelle scuole locali vengano spesso citati dai lavoratori in protesta: “Karl Marx aveva ragione”, afferma Liu Dechang, operaio presso le fabbriche Jiashian, “Dovremmo combattere come avvenne nell’ Europa del XIX secolo. Le fabbriche cinesi sono come quelle europee di due secoli fa, e come disse Marx, è solo combattendo contro i capitalisti che otterremo i nostri diritti”.

1.7 Considerazioni finali

Certe risposte, probabilmente, spettano solo alla politica ed alla storia. Ma di fronte ad un presente così duro per gli operai di Longhua e di numerose altre fabbriche da cui provengono i nostri iPhone, le nostre console e gran parte dei beni dell’elettronica di consumo, è inevitabile chiedersi da consumatori quale atteggiamento sarebbe opportuno assumere. D’altra parte, il “bisogno” di gadget sempre più nuovi ed efficienti è qualcosa di inestricabile per chi vive in paesi moderni come il nostro, e pochissimi sarebbero disposti a pagarli (molto) più di quanto non facciamo oggi sol perché un’azienda coscienziosa ha deciso di spostare la produzione la dove le condizioni di lavoro sono più giuste, eque e sostenibili. Tutto questo pone il semplice cittadino nella condizione di non poter fare nulla per cambiare lo status quo, aldilà dell’attuare un consumo informato e per quanto possibile, scevro dagli sprechi che giorno dopo giorno alimentano un’ industrialità che umilia i diritti altrui.

sabato 20 novembre 2010

Kill Bill Vol. 2



Gran parte di ciò che penso sul film lo si può rintracciare già nella recensione di Volume 1, tuttavia la seconda parte del film ha un'anima e una caratura molto differente: i ritmi si dilatano, la regia è meno dinamica, il wuxia lascia spazio allo spaghetti western.

Ritengo che Volume 2 sia uno dei migliori film (se non il migliore) di Quentin Tarantino, il giusto connubio tra azione e riflessione, tra lato umano e lato ferino.

Questa volta la Sposa (di cui si scoprirà anche il nome che -ironia della sorte- ha a che fare con la procreazione) se la vedrà con Elle Driver, Budd Gunn (interpretato da un grande Michael Madsen) e con il fratello Bill, la mente dietro al Massacro ai Due Pini, amante della Sposa e serbante un segreto che quasi riuscirà a smuovere il cuore della rabbiosa Black Mamba.

Come detto, questo film è un meraviglioso omaggio al crepuscolare mondo del Western così come inteso da Sergio Leone: l'azione si fa più ragionata -perfino il personaggio di Uma Thurman sembra essere profondamente mutato, seppur risolutissimo a farsi guistizia-, le sale da thè nipponiche lasciano posto all'arido deserto al confine tra Stati Uniti e Messico, le katane lasciano il posto al corpo a corpo o alle armi da fuoco. Nonostante ciò, non mancherà una ulteriore divagazione a oriente, con la presenza del monaco Shaolin Pai Mei.

Potrei dilungarmi nell'esaltare nuovamente i pregi del film, ma si tratta dei medesimi motivi per cui ho premiato Volume 1, quindi risparmio a me e agli sventurati lettori una stanca ripetizione e concludo dicendo che Volume 2 è una declinazione e un miglioramento di tutto ciò che si trova nella prima parte dell'epopea e qualcosa di più, prima tra tutte l'apparizione di Bill, interpretato da un grandissimo David Carradine, e la sequenza della vivisepoltura, intensissima ed emozionante.

Chiudo l'intervento con una delle scene più belle del film. Godetevela.



[10]

venerdì 19 novembre 2010

Milanisti che ve la tirate da una settimana perchè avete vinto il derby...

...mobbastaveramente.

Si vede che sono anni che non vi togliete una-soddisfazione-una, pare quasi abbiate già vinto lo Scudetto.
I conti si fanno a Maggio diamine!






Che poi, si son dimenticati che meno di un mese fa le han buscate in casa dalla Juve...:P

Inception Made In Italy

Video che ho scoperto su Facebook e che mi ha colpito.
Amatoriale, satirico ma più veritiero del TG1.
Se solo fosse possibile...

venerdì 12 novembre 2010

Kill Bill Vol.1


"Cantami, o Diva, del Pelìde Achille
l'ira funesta che infiniti addusse
lutti agli Achei, molte anzi tempo all'Orco
generose travolse alme d'eroi,
e di cani e d'augelli orrido pasto
lor salme abbandonò (così di Giove
l'alto consiglio s'adempìa), da quando
primamente disgiunse aspra contesa
il re de' prodi Atride e il divo Achille."


Così recitano i primi versi dell'Iliade, opera omerica che sonda il lato più sinistro e primitivo dell'animo umano, quello della lotta, della guerra, dell'assassinio, della vendetta.

C'è molto (con le dovute proporzioni) di tutto ciò in Kill Bill Volume 1, film di Quentin Tarantino datato 2003. C'è qualcosa di profondamente inconscio nella sanguinosa rabbia vendicativa che anima la Sposa, c'è qualcosa di catartico in quella pioggia di sangue e arti amputati, c'è qualcosa di molto selvaggio e al contempo eroico in questo film.

Prima parte della più grande e ambiziosa opera del cineasta italoamericano, il film racconta la prima cruenta metà della vendetta della Sposa, ridotta in fin di vita il giorno del suo matrimonio, evento in cui crede di aver anche perso la bimba che portava in grembo, e che risvegliatasi improvvisamente dopo quattro anni di coma decide di punire con la morte coloro che le hanno tolto tutto. Questi "coloro" sono la "Squadra delle Vipere Mortali", composta da quattro feroci criminali e da Bill, il mandante dell'eccidio. La prima metà dell'opera si concentrerà sulla morte di Vernita Green e O-Ren Ishii, la prima ex killer texana e la seconda boss della Yakuza di Tokyo.

Dal punto di vista visivo, il primo volume di Kill Bill è un grandioso omaggio al cinema orientale reso famoso da pellicole come Battle Royale piuttosto che L'urlo di Chen Terrorizza Anche l'Occidente, anche se non mancano palesi richiami ai B-movies splatter anni '80 di autori come Fulci e Russ Meyer (dice niente la "Pussy Wagon"?). Essendo un omaggio al cinema wuxia made in Hong Kong e al trash più emoglobinico, è normale che l'accento sia posto sulla fase di combattimento e sulla sanguinosità della lotta. Sotto questo punto di vista, Volume 1 è una pellicola irriprovevole: ritmo altissimo, spettacolarità, epicità, furia omicida non mancano mai, nemmeno nelle sequenze meno concitate. Il tutto, con una regia impeccabile e una fotografia che non manca di colpire lo spettatore e di regalare momenti visivamente stupendi e ispiratissimi, come il duello finale nel giardino innevato.

Apprezzabilissimo (nell'ottica dell'omaggio al cinema orientale) è la sequenza animata dedicata all'infanzia di O-Ren prodotta da IG Production, nome che ai più non dirà nulla, ma in realtà si tratta di uno degli studi d'animazione più talentuosi e acclamati del Giappone. Vista la bellezza e la drammatica solennità del frammento, è quasi un peccato che non si sia pensato a un film animato completamente dedicato a O-Ren Ishii.

Non manca nemmeno una buona dose di empatia tra La Sposa e lo spettatore. Fatto particolare, il legame si instaurerà in meno di cinque minuti e senza bisogno di battute, solo con la struggente mimica facciale di Uma Thurman, qui veramente nel momento topico della carriera che, mi duol dirlo, da Kill Bill in poi sarà sempre un lento declino.

Com'è ovvio che sia, il personaggio della Sposa e la sua interprete spiccano inequivocabilmente sul resto del cast, che comunque regala qualche buona prova d'attore e dei personaggi carismatici e ammalianti, come la disturbata Gogo o Hattori Hanzo, interpretato da Sonny Chiba, un vero artigiano costruttore di Katane.
A distanza di anni, mi domando ancora come sia possibile che abbiano vinto l'Oscar donne come Sandra Bullock e Halle Berry per interpretazioni piuttosto piatte (specie la Bullock) e alla Thurman non sia stata riconosciuta nemmeno una nomination, che si sarebbe meritata in particolar modo per il Volume 2. Ma si sa, quella dei premi non è scienza esatta, non si spiegherebbero altrimenti le sei statuette di The Hurt Locker.

Altra caratteristica che conferisce personalità al film è la colonna sonora, che da sola varrebbe il prezzo del biglietto. Si va da "Bang Bang" di Nancy Sinatra a "Flower Of Carnage" di Meiko Kaji, passando per brani di Santa Esmeralda, Tomoyasu Hotei (l'adrenalinica "Battle Without Honor and Humanity") e a brani delle 5,6,7,8's formazione pop giapponese. Bellissimo il notar come ogni canzone sia perfettamente inserita nel contesto del film, quasi a sembrar appositamente scritte per quella scena, caratteristica che Tarantino usa con maestria, al pari del collega Cameron Crowe.

Certo, la recensione non sarebbe completa se non si accennasse alla mania tarantiniana di citare e omaggiare continuamente film e registi di nicchia, elemento abusatissimo in Volume 1, tanto che alcuni critici hanno accusato Tarantino di plagio e scarsa inventiva. Personalmente, non ho provato particolar disturbo nel vedere omaggiati, di volta in volta, Arancia Meccanica, L'ultimo Combattimento di Chen, Cinque Dita di Violenza, Il Mercenario, Paura Nella Città Dei Morti Viventi e un'altra pletora di film sconosciuti al grande pubblico, anzi, lo vedo come una possibiltà di rendere noti i maestri che hanno ispirato e formato uno dei più originali e meno convenzionali registi degli ultimi decenni quale è Tarantino.

Detto questo, non posso far altro che dire: guardatelo, lottate fianco a fianco con la letale sposa e godetevi la rabbia omicida che la anima.

[9,5]

giovedì 11 novembre 2010

A proposito di Uwe...

Vi ricordate di Uwe Boll, incapacissimo cineasta tedesco amante delle scazzottate di cui scrissi l'anno scorso? No? Bene, allora prima di continuare per punizione vi leggete il mio post intitolato "Brand New Idol: Uwe Boll" che trovate facilmente alla categoria "miti".

Fatto? Bene, possiamo proseguire: Uwe è tornato con un nuovo, scadentissimo film.
L'opera risponde al nome di BloodRayne: The Third Reich, e va ad essere il terzo film dedicato alla vampira assassina di casa Majesco, che grazie a Dio è scomparsa dai pc e dalle console (e dalle pagine dei comics, mi dicono dalla regia) di tutto il mondo. Ma non dai cinema, purtroppo.

Non ci sono più Kristanna Loken, Geraldine Chaplin, Michael Madsen e Ben Kinglsey (che hanno assestato un definitivo colpo di grazia alla loro carriera cinematografica con il primo film della saga - e la Chaplin alla nomea di cotanta famiglia), ma la nostra (?) eroina non smette di versare (e bere) sangue a fiotti.
Come suggerisce il titolo, BloodRayne dovrà lottare contro il temibile esercito nazista e (nientepopodimenochè, verrebbe da dire) un Hitler semidemoniaco.

Sangue, uccisioni, sesso lesbo, schitarrate senza senso, demoni e vampiri, e il film trash del 2010 è servito. Eccovi il trailer.


Il caso Pompei



Penso non ci sia bisogno che riassuma i contenuti di una vicenda che ha del vergognoso, tutto il mondo ha visto, tutto il mondo sa. Premetto che la mia più che un'analisi o un'opinione, è uno sfogo, in quanto ha dello scandaloso che, in un Paese che davanti al mondo si vanta dei suoi monumenti, della sua arte, della sua cultura passata (perchè su quella presente e quella futura nutrire dubbi è lecito) succedano casi come quello avvenuto lo scorso sabato a Pompei.

A dar toni ancor più tristi alla faccenda si aggiunge la pratica italianissima dello scaricabarile, col Ministro Bondi che si presenta in aula a fare il finto tonto, a dire che lui non ha responsabilità, che i crolli non sono imputabili al taglio dei fondi.

Possibile che la carenza di fondi possa incidere poco, peccato che la gestione e la manutenzione (se così la vogliamo chiamare) di Pompei sia in perdita mediamente di tre milioni di Euro l'anno, e quindi senza stanziamenti statali congrui e un piano per attrarre un numero maggiore di turisti è logico che qualcosa possa andare per il verso sbagliato. Poi però, quando succede, da buoni italiani nessuno ha il coraggio di ammettere l'errore. Non di dimettersi, di ammettere lo sbaglio, perlomeno.

Sempre sul tema, mi sento di criticare il commissariamento degli scavi provveduto qualche anno fa. Se c'è qualcosa che hanno insegnato i vari commissariamenti predisposti dal potere governativo italiano nell'ultima decade (incluso il post-terremoto a L'Aquila) è che si attuano sempre misure-tampone, buone per far parlare bene i telegiornali e per far bella figura nell'immediato, ma che mancano di lungimiranza e di una concreta pianificazione a lungo termine. Stessa cosa è avvenuta a Pompei dal 2001 a questa parte, come testimoniano i vari esposti di Legambiente all'Unesco (che a fine mese manderà ispettori presso gli scavi campani) e le forti critiche che da anni organizzazioni come National Geographic muovono sui lavori di restauro.

Giusto per fare un esempio positivo, a Roma si era preparato nel periodo post-giubileo un piano pluriennale per il restauro completo del Foro romano. Ci stanno lavorando dal 2002, ed entro dicembre i lavori saranno ultimati in modo defintivo, il tutto con un piano efficiente e preciso al minuto, facendo aumentare i flussi di visitatori (quindi le entrate) e pesando pochissimo sulle tasche pubbliche. Addirittura, per la messa in sicurezza del terzo ordine di arcate Colosseo (danneggiate dal sisma aquilano), su 264 mila euro messi in preventivo se ne sono spesi 250. Nemmeno sembra si stia parlando di Italia...

Sulle presponsabilità del ministro poeta non ho dubbi, lui, almeno oggettivamente, è responsabile di quanto avvenuto. Non si capirebbe perchè il ministro dei trasporti sia reponsabile di un treno deragliato e lui non del crollo di un edificio storico. Forse umanamente sarà ingiusto chiederne le dimissioni, ma politicamente è più che giusto.

Per chiudere, vorrei sottolineare che la cosa che più mi ha umiliato e fatto vergognare di essere italiano è stato vedere il mio paese che si fa compatire dalla comunità internazionale, con il Belgio che si propone di aiutare lo Stato Italiano nella salvaguardia del proprio patrimonio culturale. Veramente disarmante.

lunedì 1 novembre 2010

Uncharted: Drake's Fortune


In questa generazione di videogiochi, spesso definita "di transizione" e in cui nessuna delle macchine da gioco è riuscita ad imporsi in modo soverchiante sulla concorrenza come fece PlayStation 2 ai suoi tempi, sia sul lato vendite che su quello software, capita comunque di imbattersi in piacevoli sorprese e in (poche) novità capaci di calamitare su se stesse le aspettative e l'interesse della comunità degli appassionati. Tra esse, spicca senza dubbio il brand di Uncharted, di cui mi accingo a scrivere una opinione (in attesa di recensire il sequel, recensione che arriverà tra brevissimo, stay tuned!)

In questo gioco, sviluppato da Naughty Dog (la casa di Crash Bandicoot e Jak & Daxter), si impersonerà Nathan Drake, avventuriero nipote nientepopodimenochè di Sir Francis Drake, esploratore inglese del XVI secolo. Nate, in collaborazione con la telereporter Elena e il mentore Sullivan, dopo aver ritrovato il diario dell'illustre antenato, partirà per le foreste vergini sudamericane in cerca del tesoro di Eldorado. La cosa però non fila così liscia come si potrebbe pensare e subito dopo entra in scena una gang di pirati e contrabbandieri che ingaggia una faida con Drake, in una sorta di corsa verso il tesoro. Si evince sin da ora una trama capace di regalare azione e spettacolo in grandi dosi, con una ispirazione palesemente tratta dalle avventure cinematografiche di Indiana Jones.

Sul lato gameplay, Uncharted si dimostra un ibrido (riuscitissimo) tra un platform -da menzionare l'ottima gestione delle fasi di arrampicata, molto più impegnativa e appagante di quella vista in Assassin's Creed o nel più recente Enslaved: Odyssey To The West- e uno sparatutto in terza persona. A dar ulteriore varietà al canovaccio ludico si aggiungono alcuni eventi scriptati e qualche enigma, a dire il vero mai troppo complicati, e una forte componente esplorativa, specialmente nelle sezione ambientate nella giungla. C'è da dire che tutti gli elementi sono amalgamati alla perfezione e non annoioano mai, questo anche grazie all'ammirabile intelligenza Artificiale dei nemici, che saranno veri ossi duri per il giocatore, in virtù anche delle differenti strategie d'attacco di cui sono dotati.

Anche tecnicamente il gioco di Naughty Dog sa farsi valere: ci si trova dinanzi alla prima vera e propria dimostrazione della forza di cui dispone il Cell, il chiaccheratissimo engine di PlayStation 3. A pare un lieve tearing, il gioco sotto questo punto di vista è praticamente perfetto, e a distanza di quasi tre anni non sfigura dinanzi alle più recenti produzioni.

Sul lato artistico nulla da eccepire: le foreste, le rovine e gli altri ambienti di gioco sono tutti curati e affascinanti, con una palette cromatica sgargiante e molto varia. Le musiche, ottimamente orchestrate, si rifanno chiaramente allo stile degli action movies e sanno accompagnare perfettamente l'azione senza essere mai invasive.

Purtroppo però ci sono dei (grossi?) difetti che, in particolar modo col senno di poi, minano le solide basi del primo capitolo di Uncharted. Su tutte, un sensibile aumento della difficoltà nelle ultime ore di gioco (a tal proposito, il gioco può essere finito in una quindicina d'ore, ma in virtù di differenziati livelli di difficoltà e di un sacco di oggetti da trovare e collezionare, si è invogliati a farsi almeno un secondo giro) che provoca un forte senso di frustrazione, specialmente nei momenti in cui Nathan è accerchiato e risulta arduo oltremisura rispondere al fuoco nemico.
Che dire poi della caduta di stile della sceneggiatura che colpisce i capitoli finali del gioco, con l'entrata in scena di improbabili Zombie, che paiono (e sono) inseriti a forza per allungare un pò la brodaglia e dare una venatura horror a un gioco che non ne ha per nulla bisogno?
Personalmente poi aggiungerei tra i difetti l'uso del sixaxis, il famigerato sensore di movimento interno al joypad di PlayStation 3. Grazie a Dio lo si utilizza solo in rare occasioni (a differenza di Heavenly Sword, gioco che se recensissi incapperei in una denuncia per diffamazione da parte di Ninja Theory), ma ritengo si tratti di una aggiunta superflua e che spezza un po' l'azione, ma ci tengo a ribadire che è una impressione mia, sicuramente moltissimi altri giocatori non degnano di un pensiero la cosa.

Tutto sommato Uncharted è un ottimo prodotto, capace di divertire e in grado di settare nuovi standard tecnologici (poi battuti dal sequel e da God Of War 3) ma con qualche imperfezione stilistica e ludica. Lo paragonerei a una bottiglia di buon vino che, dopo aver deliziato il palato per ore, giunti all'ultimo bicchiere, lascia in bocca un retrogusto amaro.

[8,5]