sabato 22 gennaio 2011

Non Lasciarmi


E' strano come un'opinione possa mutare in modo così repentino mentre si legge un libro. Mi fosse stato chiesto solo due giorni fa quale fosse la mia impressione su questo libro di Kazuo Ishiguro, non avrei esitato a stroncarlo senza pensarci due volte. Eppure, le ultime quaranta pagine, con la loro delicatezza e il loro carico di profonda malinconia hanno cambiato di molto il mio giudizio.

Mi pare però importante smorzare gli entusiasmi: Non Lasciarmi non è un capolavoro. Anzi, ha dei difetti piuttosto evidenti, tanto nello stile di scrittura, molto ripetitivo e dai ritmi dilatati - tanto che per la maggior parte di questo romanzo distopico sembra quasi di trovarsi a leggere una sorta di radiocronaca delle esperienze di vita della protagonista -, che nel mondo immaginato dall'autore, un mondo in cui alcuni cloni sono utilizzati solo ed esclusivamente per donare organi. Non voglio dilungarmi molto sulla trama, ma molte volte il lettore si domanderà (a ragione) che senso abbia un sistema come quello ipotizzato dallo scrittore giapponese.

Tuttavia, l'assurdo mondo messo in piedi dall'autore di Quel Che Resta Del Giorno è funzionale al messaggio che si vuol trasmettere, un messaggio inerente la fugacità della vita, l'inesistente possibilità di scegliere da sè il proprio futuro, in cui ci si chiede quanto sia giusto spingersi oltre per il bene dell'umanità pur sacrificando una parte di essa o quanto peso reale abbiano i sentimenti nel mondo moderno.

I temi, quindi, non mancano e sono trattati con dovizia e attenzione. Ciò non toglie che il libro sia dotato di una lentezza tale da avvicinare alla noia e da non invogliare mai alla lettura. Posso comprendere che Ishiguro volesse trasmettere una sensazione di drammaticità, di predestinazione e malinconia, ma quando questo va a discapito della fruizione del libro, in mia opinione, qualcosa non va.

C'è chi ha paragonato Non Lasciarmi ad altri grandi romanzi distopico-fantascientifici come Fahrenheit 451, Solaris o 1984, ma secondo me si commetterebbe un grosso sbaglio. In primo luogo perchè l'opera qui in recensione non ha come punto focale una situazione o un ambiente futuribile (anzi, fosse per quello, questo libro uscirebbe con le ossa rotte da un ipotetico scontro con i lavori di Bradbury, Lem e Orwell), ma punta il proprio obiettivo sui sentimenti umani e sull'amicizia che lega i personaggi principali. Secondariamente, perchè non ha la verve e la forza narrativa dei romanzi qui presi a paragone.

Non fosse per gli struggenti capitoli finali, lo avrei premiato con una sufficienza rosicata

[7,0]

Piccola nota sulla traduzione: Non capisco perchè vada di moda tenere all'interno del libro parole o epiteti in inglese per il solo gusto di fare figura. Perchè mantenere "playing field" e non tradurlo con "campo da gioco"? Non si tratta di neologismi o espressioni proprie della lingua inglese, quindi perchè non vengono tradotti?

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